Lucianna Argentino - Le stanze inquiete - La Vita Felice 2016
La parola chiave che si incontra nella nota introduttiva al libro, di
pugno dell'autrice, e che fornisce una buona traccia è "prossimo", un
vocabolo che trova la sua origine e la sua giustificazione in un
superlativo, "vicinissimo", il più vicino. Questa prossimità ha
innanzitutto un valore etico, a cominciare dal comandamento evangelico.
E' anche una vicinanza spazio temporale, un gomito a gomito in cui
agisce molto del fortuito, del casuale. Una cosa non esclude l'altra: la
vicinanza non necessariamente deve protrarsi nel tempo, ma la società è
una successione di prossimi, una catena umana delle prossimità, nella
quale funziona (o dovrebbe funzionare) una specie di proprietà
transitiva pro bono.
Argentino parte da questa considerazione apparentemente semplice verso
un tentativo di ricostruzione empatica di incontri, avvenuti per così
dire "da ferma", in una sua esperienza lavorativa come cassiera in un
supermercato, quando costretta al suo posto, vedeva scorrere, in una
condizione di relativa "pazienza" (nel senso etimologico del termine)
un'umanità varia e molto spesso dolente. Una serie di "impressioni" (e
anche qui il termine è importante) registrate all'impronta su dei
foglietti e poi rielaborate poeticamente. Questa in effetti è una delle
caratteristiche di Lucianna, questa necessità, riscontrabile spesso
nella sua produzione, di trarre "ispirazione", di poetizzare quel
fortuito di cui si diceva, caricando di poesia per mezzo della lingua
quel che c'è di impoetico nel casuale. Che non manca però certo,
quell'uomo o quella donna casualmente lì in quel momento, di
essere nel contempo un simbolo esistenziale e un oggetto di una
riflessione costante, quasi evangelica, sulla condizione umana. Anche la
fila che si snoda alla cassa di un supermercato è, a suo modo, simbolo
di quella catena di prossimità di cui si diceva prima, e anche -
naturalmente - del tempo che vi scorre senza sosta. Nella meccanicità
della vita, una "vita in paragrafi" (o di un lavoro serratamente
scandito dai gesti che può rappresentarla) l 'elemento di frizione o di
resistenza è lo sguardo, è anzi vedere più che guardare, un atto
necessario di consapevolezza e comunicazione, di percezione: "ho alzato
lo sguardo dai numeri del display per incontrare gli occhi di chi mi
stava davanti", scrive Lucianna. Quel che in parte si vede, in parte si
intuisce attraverso le pieghe dei volti, in parte si immagina delle vite
del "prossimo" (vite come "stanze inquiete" in cui ci si aggira) è la
materia di gran parte di queste poesie. E tuttavia non è possibile non
notare che si tratta di uno sguardo che quasi cerca, più che trovare,
qualcosa al di fuori di sé, qualcosa che giustifichi (che giustificava
allora, in quelle ore lavorative) una ragione nascosta in quell'essere
lì, come incaricati segreti di una riflessione, tanto che Lucianna
intitola la sua nota introduttiva "Appunti per una est-etica del
lavoro", aspirando ad un'unità che i filosofi trovano così problematica
da realizzare, ma a cui l'artista deve tendere. L'incontro di occhi è
per l'autrice - in altre parole - anche una verifica di sé, se la
propria capacità di sintonizzarsi con l'altro è attiva e conciliabile
con la parola poetica.
Rispetto ad altri lavori di Lucianna di cui ho scritto in passato (v. QUI),
questo libro, come mi dice l'autrice in una lettere privata, "è molto
diverso dai miei precedenti ma non è diverso lo spirito con cui l'ho
scritto. E' diverso lo stile, è diversa e unica la circostanza". In
effetti anch'io l'ho trovato diverso, ma non certo per la qualità del
linguaggio poetico che continua ad essere di gran livello mentre
prosegue, come avevo scritto, nella direzione di una scrittura
volutamente "ingenua" o innocente, che risponde proprio a uno sguardo
sulla gente privo di critica, non giudicante, semmai quietamente
pietoso, volutamente calato al livello (ma sempre senza giudizi)
dell'umanità che descrive e che di sicuro la circostanza suggerisce, un
linguaggio insomma non "poetizzante" ad oltranza, lineare, di una
liricità smorzata a ragion veduta, senza svolazzi o scarti metaforici e
disteso in versi liberi a tratti prosastici anch'essi del tutto
funzionali al discorso che il poeta vuole fare. Mentre certo non è
diverso nello spirito di fondo, che continua ad essere intimamente
religioso, forse con qualcuna delle venature di dubbio che avevo
riscontrato parlando de L'ospite indocile, dubbi che riguardano
soprattutto l'inanità dell'individuo, le domande senza risposta, la
preghiera non esaudita, la ripetizione del dolore. Spirito che si
rinnova in una necessità di scrivere, con uno "sguardo orientato verso
l'umano", verso quel prossimo di cui si diceva, qui in maniera quasi
programmatica raccogliendo testi che certo sono stati scritti negli
anni.
C'è forse un rischio che - generalmente parlando - serpeggia in una
poesia sostenuta da una "compassione" etica, ed è un certo patetismo
emotivo che incornicia un quadro peraltro realistico, ma segnato da un
margine, "lo spazio bianco entro cui è inserito lo scritto sulla pagina
(simbolo pure del mistero, del non conosciuto, del non visibile che
circonda ogni vita)". Bene, quel margine è insuperabile, secondo me. Va
detto però che il patetismo, eventualmente, è un atto di interpretazione
e insieme un dato di realtà, soprattutto all'interno di una visione non
materialistica della realtà stessa ("La realtà è la stessa bisogna
vedere poi / con che filtro ognuno la interpreta", scrive l'autrice).
Voglio dire, la realtà è, per molti versi, patetica.
Bisogna prenderne atto senza necessariamente farne una questione
estetica (o ideologica, men che mai). Ma in ogni caso Lucianna ha
coscienza dei mezzi di cui dispone, che stanno soprattutto nelle caratteristiche
"calmieratrici" di quella lingua poetica a cui accennavo sopra. (g. cerrai)