Viola Amarelli è
stata più volte presente in queste pagine, per cui è quasi necessario
rimandare a quanto ho scritto in quelle occasioni (v. il tag "viola
amarelli") almeno per alcune cose che rimangono presenti nella sua
scrittura. Inoltre alcuni dei testi pubblicati in questo suo nuovo libro
(Le nudecrude cose e altre faccende, Ed. L'Arcolaio, 2011)
erano già passati di qui poco più di un anno fa, mi riferisco a "incendi
occidentali". Il che in parte costituisce anche una piacevole
rilettura e forse una riflessione.
Viola
non ha mai frequentato, fin dalle sue prime prove, una poesia delle
occasioni, o prevalentemente lirica, o elegiaca (semmai oracolare), o
rapsodica, e ogni suo libro è frutto consapevole di un'idea, e un
progetto nel senso pieno del termine. Compresa anche una speciale
attenzione per la forma, che va di pari passo con (ed ospita e assiste e
nutre) l'idea o le idee che muovono la sua ispirazione. Non è perciò un
caso che l'epigrafe posta in apertura sia insieme una lucida
dichiarazione di intenti e una (possibile) chiave di lettura, una
asserzione di Antonio Porta ("Non mi sono mai appagato di una forma, ho
sempre cercato di provocarne molte"). Naturalmente qui, come in Porta,
la forma è funzionale a quel che si dice, è parte significante del
dettato, anzi è una sua "dilatazione". E ancora, la "provocazione" della
forma è dinamica, varia nel corso del libro. E' cioè espressiva, come
un volto che muta con le emozioni. Forme in movimento: grave, andante, presto sono
annotate le sezioni del libro.Quindi poemetto quando è necessario,
prosa poetica o verso lungo quando il respiro ispirativo o il racconto
lo pretendono.
Le
"nudecrude cose", quelle che come dice l'autrice "se ne fottono o, più
esattamente, restano imperturbabili", sono il protagonista latente di
questo libro, come un'ombra nella fovea dell'occhio. "Cosa" come
sappiamo è un termine tanto generico quanto inquietante. "Cosa" non è
"oggetto", è un quid insieme ineluttabile, destinato e sopratutto più
longevo di noi, che va oltre la nostra esistenza, e non c'è, direbbe
Bourdieu, "persuasione occulta" più potente di quella del semplice
ordine delle cose. Ma l'ordine della cose, dice Viola, è un caos che si
riflette sulle nostre vite, o una casualità di eventi sofferti, di
prospettive annichilenti. O anche la semplice apparizione, per quanto
carica di segni pitici, di una campagna d'inverno in cui un sé inquieto
si rispecchia. Sempre, o quasi sempre, la donna o le donne al centro di
questa poesia: che vivono le loro paure, che aspettano i loro uomini
fuori da un carcere, attraversano piazze, tirano ironici bilanci
fallimentari delle loro lotte, si affacciano "sull'orlo della fine",
vivono la loro "ora delle passioni e del deliquio" o la zona d'ombra
delle loro malattie, personaggi e interpreti (e cito i titoli delle
sezioni) di convivenze, cure, strabismi, congedi. Ma quello che
Viola vuole dire è che le nudecrude cose, se pure se ne fottono, "hanno
una loro bellezza, anche quando distorte, lesive, a volte mortali",
sono popolate da un "dio disperso". Devono essere vissute. E descritte.
Forse riordinate. Lo dice con un nudocrudo stile, pulito e personale,
inventivo nel lessico ma non autoindulgente, mai esondante, mai
eccessivo, neppure nei testi più lunghi che qui non ho inserito ma che
Viola sicuramente predilige, e soprattutto privo di ammiccamenti, di
furbizie di mestiere. Sotto molti aspetti un libro pensato per sé, un
libro di bilancio che Viola doveva scrivere, che doveva al suo personale ethos umanistico, alle sue sofferenze, per capire. Dice Amarelli nel bellissimo testo finale, "a latere",
qui non riprodotto: "...la scrittura è dall'origine un fissare, un dar
conto. E nel fissare c'è l'ordine, l'elenco, il taglio sul mondo: il
"cosi è" artistico (...) Tutta questa ansia di fissare, contare, nasce
da un flusso e si risolve in un flusso, quasi una sorta di processo a
"doppio cieco". Se il primo flusso è quello esperienziale, il secondo è
uno sguardo che trabocca (...) Si presta voce a un mondo, a una faglia,
all'innervatura di un picciolo, ci si illude, perchè il mondo resta
tutto...(...) E' la scrittura spugna, materia che respira: quello che
hai ridai. Per questo ogni poesia è sempre, dannatamente, anche nolente,
politica". Vedete? Il progetto, l'idea...