Ripescare ogni tanto le poesie che semplicemente piacciono, esercitando solo la memoria. Ecco, appunto: poesia, questa, di memoria e sulla memoria, in cui l’osservazione della natura (che in Sereni ha sempre avuto una grande importanza), osservazione anche casuale, non necessariamente speculativa, innesca il meccanismo associativo, il “formicolio” da cui emerge il ricordo “ronzante”. Non è tanto una poesia d’occasione, intendendo “occasione” in senso montaliano. Montale – riferimento a cui non è agevole sfuggire quando si parla di Sereni – era molto più “freddo” in questo senso, artisticamente calcolatore. Diceva infatti che “ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta”. Sereni opera questo spostamento, che non assomiglia nemmeno lontanamente al correlativo oggettivo, in pratica sul solo titolo, quella “malattia dell’olmo” che non è solo dell’albero che si squama, ma anche metafora dell’uomo, qui vittima di una memoria “molesta” (ma è meglio dire dolorosa), che “non si sfama mai”, come il parassita dell’olmo. Cos’è che mi piace di questa poesia costruita in due parti che ruotano intorno al verso centrale “guidami tu, stella variabile, finché puoi...” (verso che tra l’altro dà il titolo alla raccolta a cui la poesia appartiene), la stella variabile dell’ispirazione, simbolo del difficile equilibrio del rapporto tra vita e arte? Un testo costruito con grande maestria, con attenzione ai rimandi semantici e linguistici (“se ti importa”e“ma più importa”, l’albero che si squama e il gabbiano che si sfoglia; i roseo gialli petali e i sempreverdi immobili, il fiume del tu poetico e il fiume della gente in allegria (senza dimenticare, ancora con Montale, che “i grandi fiumi sono l’immagine del tempo, / crudele e impersonale” - L’Arno a Rovezzano). E poi il lampo di candore del gabbiano che, attraverso la stella, passa al pullulare delle luci, grazie a una baluginante fusione, e da lì scocca come una scintilla un atomo ronzante che – quindi e logicamente -punge e brucia, come uno spino o meglio come un aculeo di un fastidioso insetto. In altre parole, partendo dalle più basse radiazioni dello spettro luminoso (il giallo, il verde), una pressoché ininterrotto tragitto sinestesico dall’occhio alla fitta al cuore che il ricordo provoca. Al cuore il poeta chiede un lenitivo conforto, facendo affidamento a quella componente del ricordo stesso che è la tenerezza del vissuto. Nel fiume della vita niente è completamente bianco, niente è completamente nero, l’importante è aver vissuto quella vita “fino a ieri a me prossima / oggi così lontana”. Se c’è da pagare un prezzo lo si paghi: “tolto l’aculeo, non/ il suo fuoco”, che permane. Un’ultima nota: questa poesia non è solo memoria, è anche ricordo del ricordo, come sembra indicare il finale. Ci accorgiamo infatti che c’è uno scarto temporale effettivo tra l’inizio, in cui il poeta pone sé stesso in riva al fiume (“eccoti”), e le due strofe finali: la luce si affievolisce, la tenerezza invita il poeta al sonno, e il poeta scivola con essa nel sogno. Forse il sogno proprio di questo ricordo, o forse è la vita stessa, come dice Calderòn, che è il sogno del poeta.