Mercoledì, 14 gennaio 2015
Enrico De
Lea mi manda questo "manoscritto" che, da quel che ho capito, sarà il
co ntenuto di un libro che verrà. Non del tutto inedito, dato che
qualcosa si è già letto in rete, altro è stato ospitato in antologie o
riviste e una delle sezioni (Da un'urgenza della terra luce) era già uscita a stampa nel 2012 (e ne avevo già parlato brevemente su IE - v. QUI). Altri testi, prima separati (come i voli che
trovate in uno dei post precedenti) sono stati uniti insieme. Un libro
quindi che nasce dall'esigenza di raccogliere spunti, ispirazioni,
tentativi espressivi altrimenti dispersi. E di fare anche, in un certo
senso, "antologia" di sé.
Poiché ho scritto in almeno tre occasioni sul lavoro di De Lea, rimando volentieri a quelle note (v. QUI),
dato che credo che alcune delle cose segnalate rimangano
sostanzialmente in piedi. In particolare, anche in questa raccolta, mi
sembra di ritrovare:
- una ancora marcata prevalenza
del linguaggio come autentico "personaggio" della scrittura, come
cordone ombelicale, ancora di salvezza, ragione di poesia, recupero di
identità e altro ancora, come ad esempio il ri-radicarsi in una cultura
che è "sua" ed insieme altra, lontana, irriproducibile. E quindi
sostanzialmente nostalgica. Ma qui la lingua, se possibile, si fa ancora
più alta, a tratti solenne nel suo incedere, quasi aulica.
- un marcata assenza di
qualsiasi influenza o ispirazione di carattere per così dire urbano.
Questo concetto si lega da una parte a quanto detto sopra, dall'altra a
quella "distanza" che segnalavo nelle note precedenti, distanza tra
terra natia e terra di lavoro, distanza tra culture (e marcata
dall'acculturamento dell'autore), distanza geografica, distanza tra
linguaggio "normato" e linguaggio emotivo e degli affetti. Di concerto,
il paesaggio non può che essere quello della terra natia, non certo
quello lombardo (e il paesaggio è espressamente richiamato dall'esergo
di Willem de Kooning: "Poi giunge un momento nella vita in cui si esce a
fare una passeggiata, semplicemente. E si cammina nel proprio
paesaggio"). Ancora, quindi, il nostos, inteso in senso - qui - più ampio.
- all'opposto della distanza
(ma non in maniera contraddittoria) c'è anche qui quell' "avvicinamento"
(alla cose, ai luoghi, agli emblemi, ai simboli) che marcava Da un'urgenza della terra luce
(rimando ancora a quella nota), come un accostarsi di bolina a una riva
familiare e indimenticata, un'Itaca perché no, che si vede avvicinarsi o
riallontanarsi per qualche malevolo capriccio degli dei. Scrivevo
allora: "Va da sé che ad ogni radicamento (od ossessione) corrisponde
uno spaesamento, un luogo anche mentale in cui si "sta" ma non si "è",
un luogo che si cassa accuratamente dalla propria poesia e forse dalla
propria biografia perchè la felicità è "laggiù" e "a quel tempo". E da
questo punto di vista la poesia di De Lea, se posso azzardare, è
decisamente antimoderna o se volete felicemente strapaesana". Lo
confermo, precisando, se non fosse chiaro, che per quel che mi riguarda
si tratta di un elemento di valore aggiunto.
- una ancora forte
"condensazione" (sì, proprio in senso freudiano) del linguaggio nonchè
dell'immaginazione e del ricordo, continuamente ricostruito fino forse a
"reinventarlo", che fa sì che i testi talvolta acquistino un'aura
onirica, come qualcosa di sognato in quell'area speciale che è la
creazione poetica, collaterale e in conflitto con il quotidiano, segnato
invece da una lingua d'uso, corrente, normativa.
Certo la scrittura di Enrico
si è ulteriormente raffinata, asciugata ancora. Il suo rinnovamento e la
sua "novità" (che però si allunga ora nel tempo) è sostanzialmente
quella di una riscrittura in chiave moderna di una tradizione e di
elementi culturali che proprio in terra di Sicilia hanno i loro
fondamenti e i loro predecessori. Ri-scrittura talentuosa che in questa
ipotesi di libro (che ha un'evidente carattere antologico) trova anche
altri registri, altri paesaggi, altri fiati lirici, come nella sezione
"Pause e licenze" nella quale anche si ammorbidisce l'asperità di una
lingua che altrove ricerca un sapore arcaico o locale proprio in
funzione del "ritorno a casa"; e una scrittura che torna talvolta ad
essere "sottoposta - scrivevo altrove - al regime carcerario della forma chiusa, del metro, della rima", dimostrando
una innegabile capacità di utilizzare in chiave moderna i "contenitori"
("frottole", ottave, distici "a dispetto" ecc.). Insomma con un
ventaglio di chiavi che vanno da una "lingua non facile" (S.Aglieco)
che a volte mi ricorda Marina Pizzi e il suo precipitato verbale, a
stupefacenti eco di Gadda ("Dalla consistenza della mappa / arborea
s'affranca il causativo / ciottolo"), segno e conferma che per De Lea la
lingua è materiale plastico e insieme nume tutelare e mito originario
da cui è lecito aspettarsi (lui, noi) l'inaspettato. (g.c.)
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