Martedì, 1 marzo 2016
Roberto Minardi - La città che c'entra - Zona Editrice, 2015
Se ci si ferma a riflettere su quanta parte del nostro tempo dedichiamo
(o perdiamo) - negli interstizi dell'azione di vivere, parlo di vivere
attivamente la realtà a cui in qualche modo concorriamo - per osservare o
semplicemente registrare attraverso i nostri sensi il circostante, ci
accorgiamo che in maniera anche inopinata esso diventa parte della
nostra identità: o perché ne siamo invasi e lo subiamo, o perché
cerchiamo di interpretarlo, magari nel tentativo di trarne qualche
fugace illuminazione, o di renderlo semplicemente sopportabile. In ogni
caso è ciò che chiamiamo il "reale".
Accettazione, osservazione, annotazione e interpretazione, è quel che
prova a fare in questo suo ultimo libro Roberto Minardi, italiano
all'estero (vive da anni a Londra), alle prese per lo più (ma non solo)
con una realtà urbana, con una umanità incontrata in modo del tutto
casuale nelle strade, nelle piazze e, naturalmente, sui mezzi di
trasporto. Qualcosa di non dissimile, come materia poetica, da quello
che accade per esempio a chi vive a Milano, un impoetico abbastanza
universale (un non luogo, potremmo dire) che molta poesia contemporanea
si è incaricata di mettere in poesia soprattutto nell'areale "settentrionale", ma non solo lì (v. ad es. Napoli QUI).
Fin dal titolo, quindi, è la città che fa da ambiente centrale, anche
quando di essa e della sua fauna espressamente non si parla, la città
contenitore più che organismo sociale, la città palcoscenico di un
teatro del fortuito o manifestazione di una realtà che si tende a
considerare per accertata, quando invece, magari, nasconde qualcosa
d'altro, qualcosa che vorrebbe suggerire a chi come l'autore "giudica"
(ma in questa parola che Minardi usa non c'è nessuna condanna
implicita). E' forse in questo senso che la città, soprattutto nella
prima sezione "Nel pubblico trasporto", c'entra, è per così
dire parte in causa. Vale la pena di notare, incidentalmente, che il
titolo di questa sezione, con la sua anastrofe, l'inversione dell'ordine
consueto, potrebbe avere un qualche significato, un "trasporto" che
riguarda - anche - qualcosa di affettivo, di empatico, molto più di
quanto riguardi un fatto meramente meccanico. La città c'entra e entra
nel poeta attraverso uno sguardo aperto, non selettivo, in un certo
senso impolitico, cioè scevro da evidenti connotazioni critiche e forse
perfino da sottolineature di un disagio del vivere a cui invece molta
poesia (urbana, postmoderna, o tardonovecentesca, chiamatela come
volete) a torto o a ragione ci ha abituati. In un certo senso per il
poeta non è nemmeno una questione di essere individuo tra gli
individui, individuo/emblema, una voce in nome e per conto, non ha
questa pretesa né arroganza. Giudica ma non critica, poiché - come
scrive D. Castiglione in una sua nota, v. QUI
- ha "un senso del limite che si ferma al di qua del tragico".
Soprattutto in questa sezione di cui stiamo parlando, il suo è un
atteggiamento di moderno flaneur, di fronte (con altri mezzi) ad un mondo più complesso e quindi più illeggibile di quello della Parigi baudelairiana (e certo con molto meno spleen),
ma anche di quello di Pavese o di Frost. Ma sta di fatto che l'occhio è
quello, uno sguardo un po' avido, teso a cogliere un "inutile
dettaglio" (che poi alla fine forse inutile non è), un occhio dietro il
quale c'è un io non tanto defilato quanto mimetico, sia perché
perfettamente consono all'ambiente, sia perché sintonico (termine non
casuale) con i fatti, la gente, i luoghi (e l'autore dice di voler
"mostrare di essere quasi uno qualsiasi", e tralascio di sottolineare
quel "quasi"). Certo che la capacità di cogliere ha un limite
nell'esorbitanza della realtà stessa, che tende a tracimare nell'occhio.
Ecco perciò che nella scrittura essa si sostanzia quasi sempre in un
flusso, in una risacca di onde oggettuali, a volte incerte o
contraddittorie ("come un contrasto che / la dice lunga o forse / non
dice niente"), un flusso anche sintattico, ipotattico per la precisione,
che trova la sua conclusione spesso solo nel punto finale, un flusso
però nel quale le parole sguazzano bene, come pesci a loro agio,
emergono metri classici, allitterazioni, assonanze, echi, una musichetta
interna sic et naturaliter, ed anche qualche ingenuità ("Apro
la porta e in cima alle scale, / perché in effetti ci sono le scale...",
"dalla distanza, allora, si cerca di capire / se è tè o se è caffè.
Per cui ci vuole naso / per catturare questo inutile dettaglio", "Sul
marciapiede, / il luccichio di una buccia d'arancia / offre secondi di
incanto"), o forse ingenuità non è, ma un "delizioso pleonasmo", come
afferma Castiglione. Va da sé che nel flusso c'è un rischio implicito,
cioè quello di trovare o no una misura, come avviene a mio avviso in
alcuni testi dell'ultima sezione, "Prima di diventare padre", anch'essi
gestiti come un (per me troppo) lungo respiro, nei quali osservazioni
oggettuali anche minime e pensieri, gesti del quotidiano e asserzioni,
sembrano affastellarsi. C'è da dire però che certe scelte formali vanno
considerate anche da un punto di vista concettuale, cioè come ipostasi
della complessità, accertamento dell'impossibilità di com-prendere il
tutto, come epifenomeni di una realtà in sostanza disaggregata, e in
questo senso ha ragione Castiglione quando parla di "unico blocco
tipografico, quasi a marcare l'unitarietà del momento" (corsivo
mio - e blocco, aggiungo, è anche blocco difensivo proprio contro
questa complessità disaggregata). E in effetti di momenti si tratta in
questa poesia, di piccoli accadimenti, di oggetti, persone sconosciute e
persone amate, animali, eventi naturali visti nella loro infinitesima
manifestazione, raccolti in una narrazione descrittiva non epifanica,
perché non c'è nessuna rivelazione, perché "è l'eleganza della luce che
conta, lo stupore..." e "del tutto vano è anche sperare di abbracciare /
la somma delle scene che fuggono, respirano, / mentre tentiamo di non
perder l’equilibrio / e ci afferriamo a un palo". Un momento però per
così dire policentrico, in cui gli scarti, le variazioni di direzione
del discorso hanno una grande importanza e certo danno ai testi una loro
capacità di fascinazione impressionistica.
Resta per me importante, in una poesia del contemporaneo, che il poeta
agisca su questo o su un altro tipo di realtà, la torca, la popoli delle
sue idee e della sua visione, la intrida della sua presenza. Se il
luogo in questa poesia ha un'importanza relativa nello sguardo diretto
verso l'esterno, tanto che Londra o Berlino è lo stesso, ciò significa
che certo l'io ha poi la necessità di difendersi, di prendere le
distanze da una patente equazione non luogo/non identità che lo riguarda
non solo come individuo sociale ma anche come poeta. Questo è possibile
solo mettendo in campo, magari anche in forma traslata o metaforica,
il soggetto, il sé, il coinvolgimento affettivo e sentimentale, la
riflessione del proprio io cosciente e sul proprio essere in questo
tempo, qualcosa che non sia solo di "simpatia" con chi, uomo comune tra i
comuni, si incontra nella città, ambiente infine abitabile perché fatto
di uguali o peggio di omologati. E' da questo punto di vista, ad
esempio, che trovo interessanti i testi in cui l'autore mette con
delicatezza in scena la sua vita privata, domestica e affettiva,
anch'essa tratteggiata a partire da elementi minimali ma icastici,
rappresentativi, e spesso con un significativo passaggio dal "fuori" al
"dentro", all'interno (notevole, in questo senso, "Prima di diventare padre", v. sotto). Offrendo così al lettore - immaginandolo come il compagno di
viaggio sul sedile accanto - qualcosa di sè, qualcosa in aggiunta a uno
sguardo, pur meditato e attento, gettato sul caso in una metro in corsa, riguardo alla relazione più profonda tra gli uomini e l'ambiente in cui, anche poeticamente, vivono. (g. cerrai)
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