Francesco Lorusso - L'ufficio del personale - La Vita Felice, collana Agape, 2014
Lo so, il titolo fa venire in mente un manuale di gestione aziendale
edito da Buffetti, e invece è una raccolta poetica, che però di risorse
umane, in un certo senso, parla davvero. E quell'ufficio del personale
non riguarda soltanto i molti che popolano uffici e aziende, ma anche l'officium della persona
dell'autore, personaggio e interprete di un disagio (sì, il disagio c'è
anche in questa poesia) che si genera non tanto e non solo nell'intimo
ma anche in un ambiente sociale o lavorativo in cui passiamo gran parte
della nostra vita e a cui, facendo ricorso alle nostre "risorse umane",
dobbiamo sopravvivere. L'idea di Lorusso prende spunto da qui, dalla
consapevolezza, assolutamente corretta, che questo ambiente esterno,
fatto di oggetti, schemi ripetitivi, piccole o grandi alienazioni
diventi poi inevitabilmente "interno", interiorizzato, parte della
nostra identità, specchio in cui si riflette la nostra vita, anche
affettiva, psichica e che di converso su di essa si riverbera, anche in
ambienti altri o in altre sfere.
Ma non ne fa, in senso stretto, narrazione. Se molti di questi testi
sembrano frutto del rimuginare un pensiero durante qualche pausa
lavorativa (e i segni sembrano essere i tanti lemmi riguardanti
quell'ambito che connotano alcune delle poesie), poi in realtà l' occasione
(ma non in senso montaliano: "Tra l'occasione e l'opera-oggetto
bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta") diventa
suggestione per un uso allargato della metafora: del lavoro come parte
"eccedente" della vita, come segnale dei limiti sociali, come topos
della reiterazione dei giorni o dei gesti, e quindi del tempo, mentre la
vita (quella vera? quella emotiva?) trascorre. O come dipendenza.
Prendendosi qualche piccola rivincita. E quale potrebbe essere se non
l'ironia, l'uso della lingua come simbolo di libera scelta e di
orgoglio intellettuale, le invenzioni metaforiche che sono tutt'altro
che "tentennanti e spaesate" come dice Vittorino Curci nella
postfazione? Così può capitare di incontrare in questi testi
accostamenti interessanti: "consensi vietati", "l'odore sbadigliante del
chiuso", si parla di un legame come di un "contatto scaduto", di
"salari amari", di un "sapore simulato che si sparge dai capannoni", di
"menzogna prospettica inarcuata", di "mani lavorate", di "visi non più
modulabili", si accenna ad un amore che è stato "corroso con le loro
procedure prestampate da allegare", e così via. Se quindi, come dicevo,
Lorusso non si limita a far narrazione di queste dinamiche tra sociale e
intimo, c'è però in questa poesia una concretezza convincente, un'aria
di sur-realtà che è agevole percepire come "vera", c'è alla fin fine un
racconto a maglie larghe che lascia margini all'interpretazione. E
quindi mi ha fatto piacere, perchè sono sempre stato in disaccordo sul
suo essere considerato poeta "secondario", ritrovare in esergo il Pavese
di "Lavorare stanca", forse un capostipite della poesia "narrata"
(basti rileggere "I mari del sud"), ma mi sembra ci sia, in qualche
tratto, anche Pasolini.
E quindi ha ragione Daniele Maria Pegorari quando nella prefazione
accenna alla coesistenza di due libri: quello marcato, come si diceva,
dal "lessico attinto alla sfera sociale", e quello nel quale "si
racconta lo sfacelo personale, scandito dalle ore di un ufficio laico
e disperato". Un po' meno d'accordo sulla "rivelazione drammatica"
della "scomparsa del soggetto". Sia dal punto di vista puramente
letterario, perchè io credo che in questi testi il soggetto, il soggetto
poetante e poietico, sia ben presente e si sia riappropriato di un
diritto a resistere e parlare; sia da un punto di vista per così dire
politico, perché si tratta non di una rivelazione ma della buona vecchia
alienazione (un concetto che andrebbe rispolverato) di cui hanno
trattato molti, da Rousseau al Marcuse de "L'uomo a una dimensione", che
non mi pare fuori luogo citare in questa occasione. Se la poesia di
Lorusso ha un pregio (ma ne ha più di uno) è di avere avvalorato, sia
pure in maniera alterna, questa monodimensionalità come materiale
poetico ("Ricordami chi siamo, rientrando, / se ti lego a uno schermo
piatto / è per difenderci da un contatto scaduto"), di averne fatto un
vissuto raccontabile e un bersaglio, evitando di cadere in una generica
lamentazione del disagio di vivere, così tanto diffusa. E' questo,
questa riduzione dell'esperienza a serbatoio lessicale/emotivo e la sua
fusione col quotidiano il piccolo elemento di novità di questa poesia,
per quanto non totalmente originale se la si legge nell'ambito di una
poesia dai connotati "politici" che ha avuto illustri precedenti. Ma
comunque quel che conta in questa scrittura è non solo il grado di
qualità complessiva ma anche quello, se posso azzardare, di resilienza
poetica a questa dimensione. E se "adesso [che] sulla nostra pelle /
non hanno più corpo le cose" è pur vero che la poesia non ha intenzione
di rinunciare al tentativo di ridare loro sostanza. (g.c.)