Il corpo è molto presente nella poesia del lungo Novecento, quello che non finisce mai, tanto lungo che letterariamente parlando non abbiamo la minima percezione di essere nel terzo millennio. Corpo non solo scritto, ma anche, come dire, vissuto. Se facessimo una statistica delle ricorrenze in poesia della parola "corpo" rimaremmo, ne sono sicuro, stupiti. Non solo in Italia naturalmente, mi viene in mente Bernard Noel ad esempio. Del resto, che c'è di più contemporaneo del corpo? Oggetto esibito, oggetto di consumo, veicolo commerciale, ludus e insieme res nullius, target di violenza deprivato di qualsiasi sacralità, corpus con pochi "habeas", terreno di scontro politico. Questo vuol dire che l'anima ha smesso di ammorbare i nostri climi letterari, come ebbe a dire una volta un critico? Ma certo che no. Il fatto è che, per quanto lo si voglia connotare in maniera nuova o originale, per noi poeti il corpo rimane una membrana osmotica tra il fuori, l'esterno, il mondo e quella parte di noi, sia essa l'anima o qualcos'altro, che tenta di interpretare il sensibile e l'ultrasensibile. E a volte anche prigione - "Corpo, ludibrio grigio / con le tue scarlatte voglie, / fino a quando mi imprigionerai?" (Merini) - di una psiche limitata nella sua volontà di progettare/proiettare e incapace a liberarsi.