"Ogni volta devo superare l'imbarazzo dello spedire e far leggere. Lo so bene che la pubblicazione è anche questo, ma, nonostante presentazioni, letture, recensioni, continuo a sentirmi come se stessi esponendo la mia nervatura alle intemperie". Ho rilevato in queste parole di Bianca, in questo suo paragonarsi con una bella immagine a una foglia esposta alla pioggia, un indice sicuro della sua sensibilità poetica, ma anche di una ritrosia privata che la porta a lavorare la parola in quella che lei stessa definisce "tensione verso la limpidezza linguistica", ovvero necessità non solo di farsi comprendere ma anche di riportare le parole ad una loro purezza cristallina, meditando accuratamente la materia poetica. Non è quindi un caso, per quanto ovvio, che Angelo Favaro, nella sua introduzione al libro, richiami la visione zen della realtà e l'algida perfezione dei Kare-sansui, dei giardini di pietra, che in quella cultura non sono solo espressioni estetiche ma anche strumenti di meditazione. In questi giardini di acqua e pietra, dice Favaro, Bianca Madeccia dispiega "una poesia in cui ogni parola ha la consistenza della pietra e l’intangibile forma dell’acqua, e al contempo come l’acqua gela in ghiaccio adamantino, così la pietra si sgretola fino alla dimensione sabbiosa e pulviscolare". La suggestione iniziale è questa, assecondata anche dalle illustrazioni che accompagnano il libro. E', in un certo senso, un gioco di prestidigitazione, come quegli intrattenitori che ti mostrano una mano, mentre con l'altra fanno scomparire gli oggetti. Forse per via di quella ritrosia di cui si diceva, uno degli "oggetti" che tendono, per quanto possibile, a farsi trasparenti è il poeta stesso (anche Ugo Magnanti in una sua bella recensione parla di distanza, di "soggettività attenuata"). C'è in effetti nella poesia di Bianca un certo "spopolamento", a favore di una visione decentrata, esterna e in qualche modo contemplativa di un ambiente fortemente metaforico. Come nei giardini di pietra, lo spazio poetico è nettamente delimitato da materiali preferibilmente semplici, in questo caso un ventaglio lessicale volutamente minimalista, fatto di parole univoche, che è uno dei punti di forza del lavoro, oltre a quello di una compattezza strutturale non sempre riscontrabile in altri (possiamo dire a questo proposito che è un libro certamente non rapsodico) e a una versificazione pulita e netta. Gli altri oggetti poetici non scompaiono ma si trasformano o si dilatano di senso, le parole concrete - la pietra, l'acqua,la goccia, le spine, la roccia - diventano non rappresentazioni degli oggetti che definiscono ma simboli, il vocabolario in apparenza semplice costruisce architetture speculative, il procedimento metaforico è costantemente, come si conviene, induttivo, dal particolare all'universale, dall'osservazione alla riflessione, ma con un'azione sottrattiva, di alleggerimento che sarebbe piaciuta a Calvino. Con questi mezzi (e altri) Bianca Madeccia riferisce della natura e del mondo, della complessità delle cose, del divenire, della costante trasformazione dell'esistente e dell'azione del tempo su di esso, mantenendo la sua ispirazione sotto un costante e meditato controllo. Se a volte (raramente) esso ingenera un certo senso di raffreddamento o di calma quietistica che il poeta trasmette al lettore, basta riprendere il libro in mano e rileggere un testo affettuoso come il XIX, con quel "tu" rivolto forse a sè stessa, forse a una persona cara, per capire dove affondino le radici della poesia di Bianca Madeccia.