Se la lingua è una maschera, maschera di una maschera è la lingua straniera (1). Dioniso, il dio straniero, pone la sua maschera sul volto di Orfeo, significando che egli è scelto come suo doppio. Il dio straniero la pone sul volto del poeta perché Orfeo è colui che in modo innato si pone in relazione con l’incomprensibilità della lingua a partire dal suo stesso gergo, inesplicabile anche al latore. Il poeta è chi per pura necessità di relazione cerca lo straniero perché egli stesso è straniero; lo cerca per via del bisogno dato dal suo nascere e vivere in un corpo il cui linguaggio non gli appartiene del tutto perché il suo gergo, come il limbo, è luogo aperto e illimitatamente esclusivo. Il poeta riproduce per imitazione la lingua che lo circonda, e all’infinito il proprio gergo. Così come Dioniso, il dio straniero, riproduce, al di là del tempo lineare, l’atto di smembrarsi e di smembrare, e fermando il tempo nella circolarità della ripetizione si sdoppia all’infinito nei due ruoli di vittima e carnefice. È lo stesso Dioniso che nelle Baccanti di Euripide narra di come il potere allucinatorio del suo sdoppiamento avesse fiaccato in mille modi Penteo. Narra di questa sua importante prerogativa, lo sdoppiamento: mentre la vittima subisce la sua efferatezza egli può mantenersi mite, forse compartecipe. Mentre Bacco sfrenato, infuria, Dioniso comprende la pena, perché la osserva. Come se l’istinto già mostrasse la sua deriva nell’inutilità – il tempo paralizza la visione –, il poeta, come Dioniso bambino, si guarda allo specchio, come un estraneo, si vede mutare e ne scrive, giusto un attimo prima dell’ennesimo titanico smembramento.
Pupara sono e faccio teatrino con due soli pupi, lei e lei, lei si chiama vita, e lei si chiama morte (2),dichiara Jolanda Insana: c’è lei, vita che smembra; e lei morte che è smembrata, lei che compie e lei che è compiuta. Ma quando avviene che compenetrazione succede la vita muore addirittura di piacere (3). Un piacere sospetto che ha a che fare con l’autoerotismo della scrittura. Tuttavia se ciò che genera la poesia è un’illuminazione, in quanto illuminazione essa èlieta e rende così intensa la vita da somigliare al solo tripudio concesso al non iniziato, l’amplesso (4). Qui l’illuminazione è intesa come la libertà somma che la persona incontra al limitare dell’utilizzo consapevole degli strumenti umani, del corpo, zona limitrofa immediatamente a ridosso del confine tra terra straniera e terra nativa di cui dubbiamente ci si riconosce autoctoni. L’equivoco sta nel forzare una definizione riguardo il potenziale della carica sufficiente alla comprensione del confine, come sovrastruttura fittizia di un sistema lineare, ma cedevole. Wafaa Lamrani si esprime con una chiarezza lancinante al riguardo: ecco perché l’ottavo giorno è mio, dice: di modo che la lettera di quel giorno mi possa impregnare a partorire dei gemelli (5). Evidentemente l’ottavo giorno ha un genoma ermafrodito. Il cui processo generativo, la poetessa, rivela in modo inequivocabile, avviene per sdoppiamento: prima di iniziare ho chiarito con tono di sfida,ho annunciato che io e l’età siamo state separate sull’orlo dell’alienazione che io e il tempo siamo stati per sempre due volte (6). Una simile condizione rende impossibile la linearità, una misurazione unitaria del tempo, un sentimento univoco delle cose. L’iniziazione si basa sulla ripetizione dell’azione originaria del dio cui il rito si rivolge, è la ripetizione dell’evento inaudito, il cui potenziale irrisolto grava sull’umanità in modo universale, ponendo la necessità di un atto liberatorio che si basi sul ripetersi di questa azione nel tempo, questo movimento sdoppio, che fa convergere l’origine del culto nell’iniziato, conferisce al tempo un suo carattere presunto ma credibile, di circolarità. Il poeta, nei panni di Orfeo, come s’è visto, incarna a pieno titolo il ruolo di iniziato al culto dionisiaco, perché, ne sia o non ne sia consapevole, percorre concentricamente lo stesso atto misterico di smembrasi e di smembrare,più volte, se è necessario fino alla fine e nell’ambito dell’esistenza che le sue età scandiscono linearmente. Non in assenza di questa perversione temporale che comprende linearità e concentricità in una commistione che in questa sede non può che essere indagata poeticamente, non in assenza del mondo, ma nel suo intestino fenomeno, che è la quotidianità. Qui non altrove, i misteri si compiono. Con la stessa obbedienza che una funzione corporale richiede. Qui nasce la poesia. Questa sospensione, scrive Iole Toini, ci consegna a un dopo invisibile, nel segno della bocca che pronuncia l’altra cosa, (…) In questo luogo la memoria è futura, conta l’esatta distanza fra il corpo e la sua assenza (7). Forse questa ripetizione è ciò che certa psicologia chiama coazione a ripetere o è quel barlume d’individualità che tenta un compimento, tutt’altro che oscuro anche se per molti versi inconsapevole: la salute. Salute come afflato all’integrità. Integrità come capacità atta al contenimento del doppio. Un doppio che è il corpo sensibile e l’occhio che lo guarda, uno sguardo introiettato che assume per assurdo, potere seminale, e diventa identità della parola poetica. Il resto perde. Non può che soccombere a questo piacere. Quando le due: vita e morte, compenetrano che cosa sono il nome, il verbo, l’identità? Né il divieto annulla né l’imperativo plasma né il nome contiene (8) ein ciòil livello di devianza è tale e tanto che si finisce per parlare dell’anima come di una cosa nostra (9).
(1) Giudici G., Il male dei creditori, cit. Cortellessa A., La fisica del senso, Fazi Editore 2006, p. 164
(2) Insana J., Tutte le poesie (1977-2006), Garzanti 2007, p. 17
(3) Insana J., Tutte le poesie (1977-2006), Garzanti 2007, p. 17
(4) Zolla E., I mistici dell’occidente I, Adelphi 2003, p. 24
(5) Wafaa Lamrani, Non ho peccato abbastanza, Antologia di poetesse arabe contemporanee, Mondadori 2007, p. 168
(6) Wafaa Lamrani, Non ho peccato abbastanza, Antologia di poetesse arabe contemporanee, Mondadori 2007, p. 165
(7) Iole Toini, Spaccasangue, Le voci della luna, Sasso Marconi 2009, p. 45
(8) Wafaa Lamrani, Non ho peccato abbastanza, Antologia di poetesse arabe contemporanee, Mondadori 2007, p. 168
(9) Insana J., Tutte le poesie (1977-2006), Garzanti 2007, p. 25
I versi delle poetesse citate in questo ambito sono parafrasati per favorirne la lettura. I testi originali cui si fa riferimento sono riportati di seguito:
Jolanda Insana http://tattichesiamesi.blogspot.com/2009/08/lei-e-lei-jolanda-insana.html