Gabriele Galloni corre da solo
Metto le mani avanti. Non sono giovane e non sono poeta, benché qualche mio
verso sia stato tempo addietro (tanto!) fortuitamente accolto in riviste
come Nuovi Argomenti o Paragone – e chi si ricorda la
gloriosa Il cavallo di Troia?
Non sono dunque poeta, ma appassionato lettore indubbiamente sì. E ancora
oggi, tra acciacchi di ogni tipo, mi avventuro quotidianamente nella
giungla delle nuove pubblicazioni poetiche. Prediligo i giovani, perché di
leggere i quarantenni o i miei coetanei poco mi frega.
Leggo i giovani perché cerco, leggendoli, di provare ancora un poco
l'invidia che a vent'anni mi spingeva a voler superare tutto e tutti.
Io non ci sono riuscito mai. Gabriele Galloni sì.
In che luce cadranno
(RPlibri, 2018) è stato, dapprincipio, il consiglio svagato di una
cara amica poeta. Poi, a lettura ultimata, il libro che ha ridefinito per
me il concetto di Sacro. E non esagero: per giorni ho meditato
sulla musica di Galloni come qualcun altro avrebbe potuto meditare sul
Libro dei Salmi o sul Talmud. Meditazioni circolari, da sbronza apollinea
più che dionisiaca.
Possibile, mi sono detto, che un ventiduenne, un millennial come
si dice oggi, sia stato in grado di sondare queste profondità? E chi gli ha
permesso di portare con sé questi detriti di lune sconosciute? A quali e
quante divinità ctonie ha chiesto udienza?
Invidio profondamente Galloni, non lo nascondo. Molto ho rimesso in
discussione con il suo libriccino. Ho pensato che una qualunque Verità
ultraterrena, su noi e sui nostri predecessori, l'avesse colta ed espressa
meglio lui in quaranta brevi poesie che migliaia di filosofi pensatori e
teologi in tomi e tomi d'angoscia. Ma un poeta non è portatore di Verità –
e sono certo che a Galloni dispiacerebbe questo mio volo pindarico; forse
ne riderebbe.
La cosmogonia galloniana non ha universi altri di riferimento.
Immagino quante salme, sue e solamente sue, lo abitino giorno e notte. I
suoi amati corpi che, ritornati alle cellule, rinascono nella luce
abbagliante di un verso perfetto, di un fulmen in clausola che tutto
ribalta come nel gioco dei dadi, nello scherzo tragico di un baro
caravaggesco.
In che luce cadranno
parte dall'epigramma (sfiorando sovente la narrazione), attraversa
l'idillio e approda a un obliquo teatro della coscienza. Su tutto il libro,
inestinguibile, quella che Baeumker teorizzò come Metafisica della Luce. Non mi sovvengono paragoni contemporanei
con il lavoro di Galloni. Forse i suoi parenti più prossimi sono i lirici
greci da bambini; forse certi mistici medievali le cui opere non sono mai
giunte a noi.
Un libro importante, In che luce cadranno. Tra i più rilevanti di
questi ultimi anni e della sua generazione. Poi staremo a vedere. Per ora, la poesia italiana ricomincia anche da qui. (Giovanni D.V.)
***
I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l'indicibile
della conversazione. Sanno amarci
con una mano – e l'altra all'Invisibile.
***
Si parlava dei morti. Sulla tavola
i resti sparsi della cena – quelle
bistecche appena cotte. Il frigorifero
in segreto colloquio con le stelle.
***
Così un giorno, per caso,
i morti costruirono
il primo cimitero sotto il mare.
Se ne dimenticarono
in un tuffo soltanto.
Gabriele Galloni
è nato a Roma nel 1995. Studia Lettere Moderne all'Università La Sapienza.
Ha pubblicato Slittamenti (Augh Edizioni, Viterbo 2017) con una
nota di Antonio Veneziani.