Nemmeno Gesù ha lasciato impronte dei suoi passi sull'acqua del lago di Tiberiade. Le ha lasciate nelle parole, o nella Parola, se volete. E' dalla parola che si ritorna all'impercettibile, a quello che è esistito, nella realtà del mondo o del poeta, e non c'è più oppure non c'è ancora, ma è esistito per il fatto stesso di essere stato "pensato". Rinvenire impronte sull'acqua potrebbe essere perciò una buona definizione della poesia, in quanto, secondo alcuni, arte inutile, oppure perchè appunto, secondo altri, compito della poesia è inventare il mondo che c'è, riscrivendolo.
I versi di questo libriccino di Francesco Marotta, scarno e essenziale, fatto di pochi testi come se rispondesse all'urgenza di uscire subito alla luce, non sono facili. Pretendono dal lettore un'attenzione (o una discesa, se preferite) non petulante nè edonistica, e quel rispetto che compete a un lavoro meditato e sofferto, ovvero, se posso rubare le parole a un grande, richiedono a chi legge "un più intenso rendez vous". Edificati appunto sulla fiducia nella capacità della parola di ricostruire la realtà a partire dalla sua frantumazione, nel tentativo eroico del dire, questi testi si dispongono seccamente sulla pagina in versi cosi' corti da essere singhiozzi, fatti come sono anche di singoli sintagmi o da enjambements (o sinafìe) così perigliosi (nel/l'orbita, tra/passano, in/quieta) che inibiscono costantemente la completezza della frase, come a significare che nemmeno la convenzione, il codice della lingua è un dato certo, e non bisogna farsene illusione. E tuttavia ci si immagina, con grande soddisfazione, come recitare a voce alta questo ritmo sincopato e drammatico, come se il suono stesso della nostra voce prestata al poeta fosse già un necessario viatico alla comunicazione. E' il privilegio del lettore. Di questo linguaggio, spezzato, indeterminato, scarso di connettivi sintattici, già Luigi Metropoli nella postfazione a "Per soglie di increato" aveva correttamente richiamato da una parte l'ermetismo e dall'altra il simbolismo attestandone però la funzionalità descrittiva, non ideologica. In altre parole, aggiungerei, Francesco ne fa qui, molto bene, un uso complessivamente connotativo: è lo stesso linguaggio che dipinge a larghi strati la complessità del vivere, la difficoltà dei rapporti, l'ardua decifrazione del mondo. Con questa consapevolezza perfettamente moderna (questa sì con parecchie parentele nel Novecento), Marotta, che come ogni poeta è anche un Robinson, raccoglie scarti, relitti, oggetti di risulta e costruisce le sue architetture. Così oggetti fragili o appunto impronte che l'acqua non arriva a trattenere, siano essi metaforici e immateriali (un graffio d'anima) o dotati di una loro indiscutibile concretezza (un amplesso / dissennato e coeso) aprono un varco attraverso il quale forse è possibile, dice il poeta, farsi una ragione delle cose e degli eventi. E' questo il supremo tentativo della poesia. Anche se a volte la verità (o la realtà, che però, ricordando Gadamer, sono la realtà e la verità più vere del poeta) "è un’eco, un’ / impronta su / un foglio di via", oppure "qualcosa / che arriva alla porta e / vapora sull’uscio / in forma di respiro" o ancora un "inchiostro che / vaga tra silenzio / e silenzio", per fortuna è pur sempre vero che "la pagina è pronta", che la parola trova la sua destinazione, sia essa il foglio o la mente del lettore in cui riesce a risuonare. Non potrebbe essere altrimenti.