Uno dei problemi correlati ai divieti di scrivere o pubblicare quello che non piace a chi comanda (e lasciamo perdere le autocensure dei servi
del padrone, quella cosa antichissima che Orwell chiamava “censura volontaria”) è sapere se – eventualmente – c’è ancora qualcuno che legge. E
se, qualora legga, capisce. Ci si preoccupa meno di questo, come se fosse molto più importante salvaguardare il principio. Naturalmente lo è, ma
non bisogna mai dimenticare che in questo paese, forse molto di più che in altri paesi occidentali, esiste una seria questione culturale, ormai
endemica quanto quella meridionale o quella mafiosa. Questo alla politica interessa poco (o molto, per un altro verso) e la scuola italiana, ora più
di ieri, certo non aiuta.
La profezia di Orwell non stava tanto nella nascita di una società occhiuta, onniveggente e ficcanaso, cosa che invariabilmente si è verificata ma che
nell’immaginario collettivo si è ridotta a una stupida trasmissione televisiva per guardoni, diffusa in decine di cloni in tutto il globo. E’ ovvio che
nello stesso immaginario come minaccia sociale si è depotenziata parecchio, e tutti sono convinti che non c’è niente di male se qualche telecamera ti
riprende per la strada. Tranne quando, naturalmente, qualcuno non ti filma mentre sei al cesso con le mutande calate e ti sbatte su Youtube. Allora sì
che ti incazzi, improvvisamente conscio del tuo status di cittadino (?) colpito nella sua privacy.
No, la vera profezia di Orwell, non a caso spostata nello stesso romanzo al 2050 (coraggio, c’è ancora tempo), sta nella progressiva distruzione della
capacità di comunicare, soprattutto nel senso di mettere in comune affetti, sensazioni, idee, colori, opinioni. L’impoverimento della lingua è
un fatto, ogni mese esce fuori una statistica che ti dice che il vocabolario di base (lasciamo perdere gli altri) è sempre più sparuto, che i nostri
giovani sono sempre più asini, che essendo come popolo negati per le lingue non possiamo nemmeno fare affidamento su un altro idioma, una nuova lingua
franca. Le colpe di questa situazione sono svariate, e vanno dalla televisione (naturalmente) fino alla educazione parentale (dis-educazione
generazionale a cascata), passando per la solita scuola, e per Internet, un mezzo che contemporaneamente è democratico e superficiale, anche nel senso
dell’inibizione ad approfondire un pensiero non casuale. Ma queste colpe hanno un denominatore comune, che è la trasmissione e la pervasività di una
in-cultura epidermica e volatile quanto una canzonetta estiva, e soprattutto intercambiabile a seconda delle esigenze, in altre parole consumabile.