Luigi Cannillo - Galleria del vento - Ed. La Vita Felice 2014
Sono molti i motivi di interesse in questo lavoro di Luigi Cannillo,
che ho avuto il piacere di sentire di recente qui a Pisa. Un libro a
lenta lievitazione, come ha avuto modo di dirci lui stesso durante
quell'incontro, perché raccoglie testi maturati lentamente negli anni,
elaborazioni di fatti, amori, impressioni, suggestioni ma soprattutto di
un lutto per così dire "esemplare" perchè riguarda la figura principe
nella vita di chiunque, quella della madre.
E' proprio questo tema che costituisce la prima sezione del libro,
"L'ordine della madre". L' ordine (e qui già si coglie la sfaccettatura
della parola poetica) è termine che può porsi come chiave multipla: da
una parte denota la serie degli eventi che determinano, attraverso la
madre, la vita e l'identità dell'uomo; dall'altra indica il codice o il
canone, la regola e l'educazione alla vita che la madre consegna al
figlio, anche oltre la sua scomparsa, qualcosa che "impronta forme e
limiti"; dall'altra ancora, io credo, segnala la necessità e il
"mestiere" di dare un senso alle cose, sia immateriali che fisiche,
collocando le cose stesse nello spazio, come quello della casa, in cui
possano caricarsi di tutto il loro valore simbolico e affettivo. E
infatti in questo genere di "temi dell'addio" a cui appartiene anche
questa sezione, la casa è un luogo importante in cui si concentrano i
ricordi, gli oggetti, i rammarichi. In un certo senso quando la madre
muore (qui e in altri autori, v. ad es. Quintavalla QUI),
muore anche la casa, e quando vi si ritorna "gli oggetti della casa /
anticipano il lutto / al giro della chiave estranea". La morte è "una
forza contraria alla vita" che questo ordine scompone e contro la quale
l'unica resistenza che si può opporre è forse la ricomposizione dei
frammenti, appunto perché la vera consapevolezza, come nota Sebastiano
Aglieco nella prefazione, è di una "finitezza che ci abita e che non ci
chiede la resa ma l'ordine". Del resto la galleria del vento, che come
sappiamo è strumento che misura la resistenza strutturale, non è altro
qui che metafora delle correnti e dei flutti che nella vita ci investono
e ci mettono alla prova e di cui contrastiamo "l'aria dell'attrito", il
"vento sconosciuto che incrina la casa da dentro".
C'è un destino in tutto questo, o un senso in quella perdita, in quelle
presenze (di cose, di anime) che tornano a "curare" il poeta? Non lo
sappiamo, ma certo Cannillo, anche per altre vie ignote agli scettici,
non rinuncia al tentativo di darci una risposta. La sezione "12 segni"
(e sono segni zodiacali), anche se forse dettata da altre occasioni,
sembra essere in effetti un prolungamento de "L'ordine" con altri mezzi.
L'iscrizione nelle stelle del destino di ciascuno di noi non marca una
differenza degli uni dagli altri poiché, al di là del "carattere" con il
quale lo si affronta, il destino in fondo è uno solo e uguale per
tutti. Tuttavia è con quel carattere, che non è altro che un modo di
affrontare la vita, che ciascuno, alla sua maniera, dà un ordine alle
cose. Che è in ultima analisi, come nota giustamente Aglieco, un modo di
reagire a un sentimento di "perdita" che attraversa tutto il libro.
Tutti i segni zodiacali che Cannillo reinterpreta (e reinventa) sono
anche la rappresentazione di una circolarità, di un riproporsi
dell'esperienza umana che in un certo senso contesta, pur nel dolore e
quindi nella sua riproposizione, una linearità del tempo a cui anche
culturalmente siamo abituati e annulla, nel destino comune, quella
differenza a cui accennavo. In ciascuno di essi e nella circolarità di
tutti Luigi parla ovviamente di sé, ed ecco che ritorna la madre ("Nel
nome della madre / completeremo il cerchio dell’esilio / noi stessi
madre tramandata / nella consolazione, la marea / che sutura e riapre la
ferita"), ecco che, come nei "gemelli", si mette in discussione
l'unicità, si ammette "la negazione del primato", una specie di
agnizione dell'altro che ci fa consapevolmente umani.
Se qualcosa di onirico aleggia nei ricordi e nei destini fin qui
tratteggiati, nella terza sezione del libro, "Il rovescio del corpo", in
cui molto del discorso è dedicato alla relazione affettiva, all'amore,
ci si riaccosta ad una certa fisicità di cui il corpo è interprete,
anche nei confronti dell'esistere, della percezione delle cose. Se
Sebastiano Aglieco ha senz'altro ragione quando scrive che il corpo "è
il luogo dei soli avvenimenti che possiamo comprendere - gli altri ci
circondano e ci accerchiano come conseguenze di ragioni a noi oscure –",
tuttavia Luigi è troppo abile con la parole per non mettere in conto
che, nella sua poetica, il "rovescio" ha quanto meno altre letture: una,
che come un abito il corpo ha un "interno" meno visibile che a volte ci
trascende e ci domina, come nella pulsione erotica ("La trama del corpo
si mostra / al rovescio e l’unica maglia / intreccia il reciproco
assedio: / il mio desiderio verso le tue mura / e il tuo esserci al mio
desiderare") e come ci rammenta anche l'esergo della sezione in cui
Nietzsche afferma che la grande ragione del corpo è che "essa non dice
'io' ma agisce da 'io' "; e poi, certo, il rovescio inteso come
decadimento - e qui si ritorna al comune destino -, come sentimento,
ancora, della perdita che rimane sullo sfondo di tutto il libro e che è,
in questo caso, legata essenzialmente al tempo ("il tempo lente
rovesciata" e altrove "dobbiamo scrutare il traguardo / il cuore
rovesciato del futuro"). Poi, certamente, c'è uno spazio, come
nell'ultima sezione "Berliner", per inventari diversi dal cordoglio, per
momenti in cui l'esperienza si è coagulata anche in maniera correlata,
luoghi cari all'autore e alla sua cultura nei quali il tempo è passato
ma è stato vissuto in ogni suo frammento. Anche qui c'è una perdita,
perdita di luoghi significativi, una specie di nostalgia inversa, un nostos anch'esso
rovesciato. Ma poi tutto si fa poesia, scrittura, anzi corpo-scrittura.
Come raccomanda Luigi in uno dei suoi testi, "cerca il mio corpo sulla
carta / come se il tempo veramente / si fermasse sull’arco delle
righe".
Alcune ultime considerazioni. Se prima ho parlato di elaborazione non è
un caso. La "lentezza" dimostra, credo, la necessità estrema di
Cannillo di disciplinare la propria materia poetica, di pensarla e
ripensarla, di passarla attraverso il crivello della selezione
linguistica, che è accurata, senza ridondanze, e che comunque tenta di
raggiungere quella "verità che giace al fondo" di sabiana memoria. La
lingua per l'autore non è un totem né un obbiettivo, è un medium in
senso pieno, un veicolo da tenere nella massima attenzione e sotto
controllo. Io credo, sia detto per inciso, che in fondo Cannillo esprima
una sua personale lirica degli oggetti, con molti significativi agganci
- se ancora può avere un senso fare riferimenti del genere - ad alcune
modalità e sfumature che furono della storica seconda linea lombarda.
E tuttavia questo lavoro di lima, questo ripensamento, questo
controllo, non raffreddano il testo, non lo intellettualizzano, non
depotenziano la carica sentimentale e affettiva. Non sono solo l'ottimo
mestiere e la cultura di Luigi a conseguire questo equilibrio, è senza
ombra di dubbio "quell'alleanza tra etica ed estetica" che Roland
Barthes - nell'esergo della prima sezione - attribuisce alla propria
madre e che Cannillo fa sua. Ed è inoltre la capacità dell'autore di
porsi alla giusta distanza, che non è solo quella che separa i vivi dai
morti (cosa che sottolinea anche Sebastiano Aglieco nella prefazione)
ma anche quella dalle sue fonti di ispirazione, una qualità essenziale
del buon poetare. (g.c.)