Dona Amati - Riguardo all'obbedienza - Poesie dal corpo, FusibiliaLibri 2013
Scrivevo tempo fa, a proposito di testi di un'altra poetessa, che il
corpo è ormai da tempo un topos nella poesia femminile contemporanea,
dapprima come riappropriazione, poi come emblema di una nuova visibile
fisicità, poi come nuovo terreno di disagio e luogo in cui si incrociano
ancora problematiche irrisolte, problematiche anche, aggiungerei oggi
alla luce della cronaca, estremamente drammatiche. Aggiungo anche che il
corpo, come oggetto o luogo metafisico o appunto topos, sia appannaggio
pressoché esclusivo della poesia delle donne è incontestabile. Ma
escluderei che questo (all'interno della già abbastanza astratta "poesia
Femminile") ne faccia una poesia di genere, semmai un terreno su cui le
donne, se non fanno poesia "mise en scène", si muovono più agevolmente.
Tutto questo è vero, ma è, per così dire, storia sociale. Qui, in
questo lavoro di Dona Amati, c'è altro, c'è il tentativo intanto di
riaccostare il corpo a qualcosa di mitico, o ontologico se preferite, a
strumenti o canoni più raffinati, più adatti a intuire l'intima sostanza
di un corpo abitato dall'amore e dall'eros in maniera inseparabile. Un
corpo (è questo forse il senso di quel "dal" nel sottotitolo) che si
esprime, détta il verso, da esso il verso proviene. E a cui,
probabilmente, si deve l'obbedienza a cui il titolo allude, obbedienza
che, sia chiaro, non è asservimento, ma qualcosa che assomiglia di più a
una specie di fede gnostica.
Da questa idea forte di base nasce un libro organico, non solo nel
senso di buona ossatura, ma anche di vitalità interna delle parti
articolanti tra loro, con le loro buone ragioni, un singolare
trattatello d'amore. Poichè parlare di Eros, quand'anche si manifesti
come dio, non basta, come sapevano bene gli antichi. Esso è dotato di
diverse anime, in una raffinata distinzione che dà fondamenta alle sezioni del libro: Himeros,
la passione del momento, il fuoco che deve essere combusto e ridotto in
cenere, "carne in festa", "pasto fisico", "facili bocconi d'eros", per citare le parole di Dona,
un momento in cui sono "appena accennati i discorsi del cuore", anzi il
cuore è "in palude", non conta, o non ancora; Photos (o
Pothos), il desiderio lontano, a cui tendiamo, in qualche modo
differito, nutrito della speranza che arrivi o ritorni, idealizzato in
una forma che assomiglia molto a quella di cui i romantici ammantavano
l'amore, erratico e immaginifico, e in sostanza tanto languido per
quanto rimpianto, "tormento tolemaico al mio / tempio solitario che
caduco / gli sopravvive intorno" dice l'autrice con bella immagine
parlando di qualcosa di già trascorso; Anteros, l'amore
corrisposto, inteso nella sua totalità di trasporto sentimentale,
affettivo ed erotico biunivoco, una intensa comunicazione a doppia via,
quello a cui tutti noi siamo disposti ad attribuire il crisma della verità, il completamento
(come vedremo), l'amore in cui - dice Amati - si riconosce "un odore /
nel ricordo di un mai vissuto", si salda un "debito d'amore mai estinto /
dalle storie incomplete", ed è "simbiosi d'appartenenza / - la nostra
appartenenza - / sensuale / cucita a noi addosso per sortilegio ambito",
ove "l'oscurità sbiadisce inerte / al sollievo dei tuoi sorrisi", una
fortezza in cui insieme resistere (e l'ultimo verso della sezione - e
del libro - recita infatti perentorio: "Nessuno ci tocchi"). Con Anteros il cerchio simbolico si chiude e si soddisfa, poichè, mi piace ricordare, mentre Himeros e Photos sono connotati e manifestazioni di Eros, Anteros ne
è fratello, secondo la mitologia classica, colui che con la sua
vicinanza permette a Eros, altrimenti eterno inquieto fanciullo, di crescere e
completarsi.
A ciascuna di queste anime dell'amore l'autrice assegna un'attributo, come in un gioco di tarocchi o nel I-Qing. Se Himeros è "La dipendenza" e Photos è "L'impermanenza", Anteros è
"La quintessenza", ciascuno, in ragione di quanto abbiamo visto sopra,
con il suo diverso "obbedire". Facile forse riconoscervi un percorso
biografico, una intensa trasposizione in versi del vissuto, un bilancio.
E anche, certamente, una scelta, per esempio proprio "riguardo
all'obbedienza". Che è parola antica, biblica, "pesante" (come ricorda
giustamente Letizia Leone in una nota), ma che qui a mio avviso, come ho
ricordato prima, riassume in sé quasi un carattere religioso di virtù.
Ma senza, sia chiaro, né la docilitas né la docibilitas
che tradizionalmente si associano all'obbedienza. Insomma né obbediente
né discente, la poetessa ci avvisa fin dall'inizio, nella sua dedica
"Canto d'amore - Obbedienza a Lilith": una voce da donna a donna, tra
l'autrice e la donna creata prima di Eva e cacciata dal Paradiso per
aver disobbedito ad Adamo, quasi un manifesto della parte umbratile e
indocile del femminile e del "demone" che in essa alberga, disegno di una soglia
che forse nessun amante - pur essendone attratto e perturbato -
riuscirà mai ad attraversare del tutto, di quella "essenzialità della
differenza" che potrebbe ricordare Luce Irigaray. E l'uomo - pur amante/amato amatissimo - è ospite in questa coscienza "ospitante" e in questo corpo.
Se il corpo è centrale e "détta", poi infine è lo strumento
dell'artista che riannoda il tutto: la parola, il Verbo laico (come ben
ricorda Rino Caputo nella prefazione), il legame, il Logos che
ricomprende e bilancia in sé Eros in perfetta individuazione junghiana, insieme
razionalità descrittiva e potenza verbale della poesia, la primazìa
trionfante del linguaggio (qui preciso, attento, controllato, mai
esibito) orchestrato con "esplicito e consapevole maneggio di forme del
dire, prosodiche, metriche e stilistiche" (Caputo) ed anche, aggiungerei, liriche. Come scrive Dona
nell'incipit di "Poesia per un poeta": "Potendoti crescere nella bocca /
sceglierei d' esser parola / il fusto di un suono antico...". (g.c.)