Venerdì, 9 settembre 2016
Francesco Filia - La zona rossa - Il laboratorio/le edizioni, 2015
Cos'è la zona rossa? Ne abbiamo più o meno un'idea: anni di "eventi", a partire dalla fine degli anni '90 (Seattle, 1999), ci hanno abituati a questa area
fisica e giuridica "esclusiva" in cui i detentori di un potere si rinchiudono per parlare dei fatti loro (e nostri), difesi da un apparato militare e
repressivo vero e proprio, proprio quella zona in cui per una ragione si sospende un diritto di esserci, di starci ecc., una libertà di movimento, una
"circolazione", non solo delle persone ma anche e soprattutto della manifestazione delle idee. Ma anche - storia di questi giorni - quella in cui si segna
il perimetro di una instabilità, del rischio del crollo, della maceria inabitabile - in questo caso il relitto di una lotta, di una speranza ideale o
semplicemente, come ha notato qualcuno, di un rito di passaggio. E' questo il nocciolo della questione, nel libro di Francesco Filia, che partendo da una
memoria per così dire "storica" e collettiva - cioè le manifestazioni e gli scontri avvenuti a Napoli il 17 marzo 2001 in occasione del Global Forum, un
triste prodromo di quanto più grave sarebbe accaduto a Genova di lì a qualche mese - delinea un percorso esistenziale, sociale e inevitabilmente politico,
una parabola discendente. Libro autobiografico, poema epico/lirico strutturato su piani temporali diversi (ora/allora, ma il tempo narrativo è tutto in un
giorno, da alba a tramonto), registri diversi (narrativo, lirico/elegiaco) e voci intersecate, incentrato sulle presenze di tre ragazzi e una ragazza di allora, qui non
esclusivamente come persone in carne ed ossa o "personaggi" ma anche e forse in maniera precipua come emblemi generazionali, almeno di quella generazione
che all'inizio del terzo millennio non aveva ancora voglia di smobilitare l'impegno politico, ma forse, come dice Viola Amarelli, "epigona del fallimento
dei padri". Pur senza colpa, perché, come avverte Masullo nella prefazione, "l'ideale infatti è intrinsecamente necessario ma altrettanto intrinsecamente
impossibile". E' questa necessità a statuire il rito di iniziazione narrato in questo libro, con la relativa parabola conseguente. Passaggio verso dove? Se
questo è, nella sua compattezza, un bildungsroman, come ha osservato qualcuno, lo è alla rovescia, nel senso che forma ad un sentimento irrelato
di sconfitta, forse di inadeguatezza ai tempi che verranno (sono venuti). In questo è degnamente contemporaneo, essendo impossibile un riscatto, un'ascesa
o una catarsi. Le magnifiche sorti e progressive sulle quali, anch'egli all'ombra dello sterminator Vesevo, già Leopardi ironizzava, sono finite.
E tuttavia - poiché la poesia serve anche a questo - ripercorrere quelle vicende da un punto di vista plurisoggettivo (per dirla in termini
cinematografici) non è una archiviazione. Se in esergo tra le altre cose Filia sente di dover porre le parole del PM Marco Del Gaudio al processo
del 2009 contro gli abusi dei poliziotti ("Succederà di nuovo, prima o poi. Se non si mette bene a fuoco cosa è accaduto quel diciassette marzo, il rischio
è che tutto ciò accada un’altra volta") è perché credo che abbia sentito questa necessità, cercando di darne poeticamente un senso attraverso una
registrazione per così dire sinestesica di quegli sguardi diversamente soggettivi di cui si diceva prima. Del Gaudio preconizzava, facile sibilla,
qualcosa che nel 2009 in realtà era già tragicamente avvenuto, lo sappiamo. Il libro invece parla di una lezione irripetibile, perché si cresce, si cambia,
si tradisce (ideali e, come racconta il libro, compagni), si diventa forse pompieri, si supera forse quella pulsione di morte un po' romantica che
serpeggia nel racconto ("Trent’anni sono la soglia oltre la quale / non andrò, spesso mi son detto / brucerò quello che rimane in fretta"), si dimentica la stretta relazione tra pubblico e (è) privato (ricordate?). Lezione
irripetibile perché soggettiva, identitaria, sentimentale, nel senso buono, pieno ed "educativo" della parola, il non avere più dopo quel "niente di
meglio" flaubertiano che Filia cita in un altro esergo. E lezione insieme rinnovabile perché la si narra a chiunque voglia leggerla, se ne fa poesia
(scegliendo insomma la forma di comunicazione più "costosa", come direbbe Barthes) a tratti anche in maniera impietosa, poco giustificazionista, a tratti
con una vena lirica che parla direttamente alla nostra parte illogica, emozionale. Ma poi quel che rimane, la nota persistente di fondo, è la faccia
politico/poetica della meglio gioventù, del come eravamo. Ecco, se a me come semplice lettore è venuto in mente qualcosa, non è tanto Sciascia come ad alcuni, quanto piuttosto Gianni, Antonio, Nicola e Luciana, insomma l'Ettore Scola di "Ci eravamo tanto amati", che già nel 1974 descriveva magnificamente e forse anche
con maggior pessimismo l'epos di una resa generazionale, peraltro uscita da una catastrofe ben più imponente.
Non mi inoltro più di tanto nei dettagli perché di questo libro hanno parlato acutamente in diversi, a cominciare dal prefatore Aldo Masullo (ricordo tra
gli altri Montieri, Amarelli, Curci) e anche per i testi, oltre a quelli qui sotto, rimando a quelli apparsi su Nazione Indiana, Poetarum Silva, Carteggi
Letterari, ma anche QUI, ne La disarmata. Aggiungerei soltanto che uno dei meriti principali di questo libro è proprio di essere un poema a tutti gli effetti, come hanno notato in tanti.
Una forma-argine, un mezzo di contrasto della poetica rapsodica e frammentaria con cui si manifesta il "compianto", l'angoscia esistenziale, il disagio di
identità e collocazione che un po' "snerva" tanta poesia attuale. E' già importante, al di là che la si possa catalogare come opera politica o civile, cosa
che non interessa, o del fatto che inevitabilmente anch'essa sia mercè della "brutale corrente " della resa, se posso permettermi di semplificare. Ma qui la
storia (minuscola o maiuscola che sia) non pretendeva altro che di essere guardata per un momento in faccia. (g. cerrai)
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Sabato, 4 aprile 2015
AA.VV. - La disarmata - CFR Edizioni,2014
Un libro divertente, e mica è poco. Be', non soltanto questo,
naturalmente. Una collettanea uscita da un incontro tra amici, tutti
uniti dall'esser nati a Napoli, "pur se in maggioranza migranti", e di
avere un comune amor critico verso questa città. Viola
Amarelli, Francesco Filia, Vincenzo Frungillo, Immo (non chiedetemi chi
è, non ne ho la minima idea) e Gianni Montieri si sono divisi il compito di mettere in
versi una specie di attraversamento, non solo topografico, della città,
partendo ovviamente da loro "sentimento" o ri-sentimento nei suoi
confronti. Un attraversa,mento, o un ghirigoro, che secondo Flaiano è
in Italia (figuriamoci poi a Napoli) la linea più breve tra due punti,
un giro tra pubblico e privato, tra presente e passato, tra possibile e
improbabile, tra sociale e politico ma senza ridondanze, un piccolo,
personale sguardo, ma senza voyeurismi, sul corpaccio cittadino.
Non aspettatevi una "guida" di Napoli. Anzi, ci sono elementi
sufficienti per perdersi, eventualmente, come si conviene in poesia. E
non aspettatevi nemmeno la camorra, o Scampia, o cose del genere, e
anche di munnezza ce n'è poca. L'approccio è ovviamente soggettivo,
potremmo dire intellettuale o, proprio a fare i difficili, borghese, ma
senza dubbio anche emotivo nei confronti di questa città "disarmata"
(una speranza?, una constatazione di impotenza? uno smantellamento?) e
complicata. Complicata talvolta anche per il fatto che ci si aspetti a
torto la "narrazione" napoletana, che vi si cerchi sempre una
napoletanità, una eccezionalità. E invece gli autori sono stati bravi a
darne uno sguardo per così dire laterale, anche ironico, anche onirico,
anche metalinguistico (una città può essere un linguaggio, magari più
della sua lingua?). Certo poche città come Napoli si prestano a farne
una metafora, anzi una allegoria, mica si può fare un libro così su
tutte le città, non certo su Firenze, figuriamoci su Pisa, magari forse
su Roma, che ormai però non ha più una identità se non quella della
corruzione politica e urbana. E come c'è qualcosa di attrattivo, anche
nel ricordo, per qualunque forestiero che abbia sostato almeno un po' a
San Gregorio Armeno o sul Decumano inferiore, certamente c'è qualcosa di
ombelicale tra un napoletano, anche se migrante, e Napoli, qualcosa di
cocciutamente persistente in quello che ho chiamato amor critico,
resistente oserei dire a qualsiasi mutazione antropologica.
Poi naturalmente in questo quadro ognuno ci mette del suo, con i suoi mezzi: Viola Amarelli
nella sua sezione "rettoriche" usa il linguaggio come una installazione
in una via della città, quasi un corpo estraneo da cui la realtà, le incrostazioni di materiali vengono
estrusi e ricollocati, reimpostati nel suo stile attraverso il valore
sibillino e insieme accusatorio dei nomi, degli aggettivi che denotano
all'infinito (ipoteticamente possibile) gli attributi del luogo e le sue
rogne; Gianni Montieri immagina, in "turisti americani", il probabile (perché
no?), un piccolo Grand Tour di cui Partenope dovrebbe essere tappa
obbligata, e letteraria più che turistica, dei "suoi" autori (Roth,
McCarthy, Carver, DeLillo, Bolaño ecc.) collocandoli in posti
strategici della città, in punti rossi su una mappa ideale (you are here ►), ma come una location,
un esterno giorno dello sguardo e del pensiero dell'autore come se
fosse interpretato suggestivamente da altri, con un'aria un po' così, un
po' di come se, un po' straniera, o viceversa immaginando "il pensiero
quotidiano dei presenti viaggiatori, leggermente sorpresi, ma attenti"
(Elio Grasso, nella postfazione); anche Francesco Filia,
nella sezione "stradario", sceglie l'incrocio di vie, i luoghi, una
toponomastica però in questo caso del tutto personale, legata ai
ricordi, alle sensazioni, alle esperienze, uno scenario anche teatrale
popolato di gente, di affinità e differenze anche sociali, di "strati"
di cose e persone, di storie però per così dire "ripetibili", non del
tutto relegate al passato, non del tutto fissate nel presente, che
appaiono essere non meno organiche a questa città delle sue strade
ortogonali; la geografia "vissuta", ma da una prospettiva differente, è
anche la scelta di Vincenzo Frungillo, nella sezione
"zona est" ("storico insediamento di un proletariato industriale
spazzato via dalle logiche postmoderne", nota degli autori),
essenzialmente un luogo quasi senza nomi, uno spazio fisico e mentale in
cui la storia "assurge a testamento personale e popolare, contiene la
mai programmata transizione fisica della poesia" (ancora Grasso), ma col
peso del dolore patito direttamente, sia esso della morte di qualcuno
amato, della "dismissione", o dello sfregio ambientale di quel medesimo luogo che grava sulla
morte stessa, che inquina le acque e gli animi ma che non impedisce
tuttavia quella traduzione in versi a cui allude Grasso; mentre il
registro di Immo si distanzia sensibilmente
dagli altri, nella sezione "ci stanno un napoletano un napoletano e un
napoletano, ovvero: 8 poesie ma 9 pagine (come higuain) sul significante
NAPOL", pur non interrompendo "la corrente tra poeti della stessa
foggia" (sempre Grasso): non la interrompe infatti, semmai raccoglie
certi materiali decantati dagli altri e li "curva nell'invettiva pop e
amarissima" (da una nota degli autori), magari ci cazzeggia un po', li
rappa, li performa, li mette in "musica" (e non ci scordiamo che piazza
musicale è Napoli, da sempre), proletarizza il tono, ma li mantiene in
tensione, recupera delle maschere, compresa quella del folle
Scardanelli, l'eteronimo con cui Holderlin tentò di prendere le distanze
da sé stesso e dal suo passato. Ma in fondo non ci sono distanze da
prendere. Per tutti Napoli, anche quando non nominata, è insieme reale e
sfuggente, ma sostanzialmente, per quanto possa sembrare
contraddittorio, qualcosa di rassicurante, che bene o male c'è, con una
sua perdurante presenza nell'anima, per tutti orgogliosamente un ubi consistam, un fondamento. (g.c.)
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