Mercoledì, 10 dicembre 2014
Francesca Del Moro - Le conseguenze della musica - Cicorivolta Edizioni, 2014
Avevo già avuto modo di parlare di Francesca Del Moro a proposito del suo precedente libro "Gabbiani ipotetici" (v. QUI).
Un libro che avevo definito discontinuo, con i suoi alti e bassi, ma
complessivamente positivo, specie se lo si guardava nella prospettiva di
uno sviluppo ulteriore. Anche lì c'era, tra gli altri, il tema
dell'amore e dell'abbandono che poi è venuto a coagularsi in questo
secondo libro.
Ma è difficile parlare d'amore. Perchè è un tema vecchio come il
mondo, che però vorremmo almeno che ci venisse raccontato con parole
"nuove". E questa è già una bella contraddizione in termini. Inoltre
poche cose sono egocentriche come l'amore e la difficoltà di parlarne
sta in parte in questo, nel cercare di superare questo egocentrismo,
anzi questo egotismo, di superare, anche nel linguaggio, quello
che, su entrambi i versanti di chi scrive e di chi legge, crediamo di
sapere, crediamo di poter dire. Giacché - e questo è un altro
problema - l'amore è anche uno dei temi più soggetti all'omissione,
all'autocensura, alla tentazione di assoluzioni, alla oscillazione tra
cordoglio e euforia, a una sua connaturata discontinuità.
Esposto insomma alla costruzione di una personale "verità". Cose su cui
generalmente non ho niente da eccepire, se non fosse che spesso sono
causa di altri problemi, come ad esempio lo scivolare in ciò che Francis
Bacon, l'artista, in alcune delle sue sporadiche dichiarazioni chiama
l' illustrazione o la decorazione, due cose che all'arte sono abbastanza antitetiche.
In "Gabbiani" tutto il tema sentimentale, della mancanza, dell'assenza
non risarcibile era esposto in una maniera che avevo trovato
interessante, con una veemenza tra la rabbia e l'ardore, e con un senso
della sconfitta onorevolmente combattivo. C'erano tanto per capirci
alcuni testi di una straordinaria "cattiveria", come ad esempio Al mio ex marito e alla sua nuova moglie senza rancore oppure Preghiera o ancora Appena ho un momento libero (potete leggerli nel post
citato). In essi il linguaggio, volutamente discorsivo e "naturale",
era tutto finalizzato alla valorizzazione di valori primari, istintuali,
non mediati più di tanto, ed insieme era controllato ma giungeva non a
prendere atto cronisticamente dei fatti ma a fare di essi qualcosa di
non razionalizzabile, qualcosa di poeticamente irragionevole, come deve essere la poesia. Tornando a quanto dicevo prima, in quei testi Francesca non illustrava i fatti, non li decorava, anzi li spogliava a dramma umano, per quanto personale, restituendoli a una necessaria "crudeltà".
Dico questo perché "Le conseguenze" mi sembra complessivamente un passo
indietro riguardo a quella capacità di gettare nei testi anche una
certa violenza espressiva ed emozionale, di scrivere con lo sguardo
doloroso ma fiero rivolto in avanti, non ripiegato. Non discuto né della
"onestà di scrittura" né della "trasparenza dell'autrice", per citare
l'affettuosa postfazione di Martina Campi. Non discuto della personale
"verità", o della profondità del dolore o del sentimento, nè da quale
eco provenga e quanta eco possa fare in chi legge, tutte cose
massimamente rispettabili. Ma che viaggiano (o rischiano di viaggiare)
su un binario diverso da quello della loro resa espressiva. Mi limito a
constatare, a mio avviso, un complessivo raffreddamento della
espressione poetica, cosa che è diversa dal grado di "sensibilità"
(concetto quanto mai vago) da cui quella espressione ha preso le mosse.
Se non è lecito - per fare un piccolo esempio - dubitare della "verità"
(personale) implicata in versi come questi: "Chissà se lui sente / la
carezza dei miei occhi / sulla sua schiena / ogni volta che esce", è
però legittimo dire che una verità personale rimane, anche se si volesse
tentare di farne una "immagine gentile" - per usare parole di Francesca
- ad uso del lettore. Analogamente, in un testo come Segno il percorso fin qui
(v. sotto) - che peraltro mi ricorda certe cose di Sylvia Plath - si
capisce bene e si può certo condividere la carica emozionale e dolorosa
che lo alimenta ma mi pare inevitabile registrare, specie nella seconda
parte, almeno due note di fondo, un evanescente patetismo, un passivo
compianto, una vocazione ad addossarsi la "colpa", molto lontani dalle
poesie di "Gabbiani" che citavo e presenti qui invece in diversi altri
testi. Poi certo l'autrice è capace di ironia e autoironia come in Stupido, di raccontare un dolore anche più profondo come in Ho pianto tanto tanto e tanto o in Pensiero assurdo,
perché Francesca, se vuole, strumenti ne ha a sufficienza. Capisco
quando dice, anche qui flagellandosi, di essere "un cliché / come del
resto, hanno detto, / le cose che scrivo", ma mi sento di respingere con
forza questa affermazione. O quando dice sconsolatamente "mi fermo. /
Non vale la pena scrivere / di questo non vivere". La preferisco quando
afferma "Scrivere qui / è quel che mi resta / ma mi sento un po’
meglio". Certo, la poesia non può essere solo un'attività consolatoria,
qualcosa di catartico, come è convinzione di troppa poesia femminile, o
elaborazione del lutto. Ma scrivere vale sempre la pena, e continuare a
scrivere bisogna. (g.c.)
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Giovedì, 21 marzo 2013
Francesca Del Moro - Gabbiani ipotetici - Cicorivolta Edizioni, 2013
Il gabbiano che attraversa trasvolando con qualche incertezza, qu alche
dubbio e qualche ferita, ma molta determinazione questo libro di Francesca Del Moro
è - secondo l'avvertenza di Giorgio Gaber in esergo - l'alter ego, o
meglio ancora il deuteragonista de "l'uomo inserito che attraversa
ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana".
Non sono però separati, anzi "ci si sente come in due". Ovvero, come
titola un testo, "squilibrata e sana", qui e altrove, dentro e "fuori"la
vita.
E' questa bipolarità tra il rasoterra e il volo, io credo, ad essere
creativa, questa coscienza dolorosa e sopportata, nel vero senso del
termine, portata sulle spalle. Se tu ne prendi atto e sei capace di
dargli un nome, di scriverlo, allora il dolore non è "sordo", anzi
acquista una voce. Una voce potente.
Qui la voce (poetica) è arrabbiata, anzi incazzata. Lo dico pur sapendo
che a Francesca non piace, perchè sa di clichè, come scrive in suo
testo. Ma so anche, come scriveva Bukowski da qualche parte (cito a
braccio) che la gente è matta, e se non è matta è arrabbiata, e se non è
né matta né arrabbiata (vuol dire che) è semplicemente stupida. Cosa,
quest'ultima, che credo sia la vera discriminante, poiché esclude
implicitamente l'arte.
Se si parte da questo presupposto (o discriminante) perfino parlare di
poesia femminile ha poco senso, e questo mi solleva poiché sono convinto
che non sia un genere, esattamente come (appunto) quella "arrabbiata" o
quella "giovane". Direi che tutto dipende dai filtri (anche psichici, e
dall'intelligenza, anche ma non basta) attraverso cui l'esperienza
(magari brutta) subisce la sua metamorfosi in significato, come un
kafkiano insetto mostruoso che torna ad essere Gregorio. Diciamo, per
spiegarla diversamente, che qui, come sosterrebbero altri, c'è una forte
correlazione tra l'io analitico, quello
dolorante/corporeo/affettivo/sentimentale e quello etico, o narrante.
Insomma, per un poeta non basta prendere atto di un amore
finito, di un disagio esistenziale o femminile, della morte di un amico
caro, delle ingiustizie, della sconfitta politica e magari farsene una
ragione. Semmai, al contrario, gli interessa fare dell'esperienza
qualcosa di irragionevole. Come forse farebbe un gabbiano.
Tutto naturalmente è molto più "concreto", nei testi, di quanto possa
apparire da questo discorso. La sordità del dolore di cui dicevamo viene
contrastata dal lavoro di scrittura. Qui in effetti la scrittura, anche
con i suoi eventuali "inestetismi", è importante perchè sonora, fàtica.
Diretta, "primaria", spesso tutta d'un fiato ("frenetica" dice Adriana
Soldini nella prefazione), a volte scatologica, apparentemente
spontanea, è fondamentalmente priva di trabocchetti metaforici, di roba
da decifrare. Dice quel che deve dire, anche in maniera percussiva, e
tuttavia restituisce, nei testi migliori, una leggerezza antieroica, una
donna che non vuole essere emblematica, semmai vorrebbe essere felice.
La narrazione è comportamento vissuto, e quindi etica. Il linguaggio è
selezionato su un registro volutamente "naturale", e quindi scelta
ideologica, di non separazione tra il dire e il poetare (e infatti
Francesca, in un testo intitolato "Soancheioscriverecazzateermetiche",
ironizza su certe maniere: "da estenuati ossari / promanano lacerti
d'urlo...")
Certo "Gabbiani ipotetici" ha le sue discontinuità, i suoi momenti alti
e quelli bassi, come naturale. Un esempio per tutti: non è facile - non
è mai facile - fare una poesia politica o "civile" che sia
anche "bella", che sia qualcosa di più di una invettiva. Il problema, a
mio avviso, sorge quando in essa, secondo una classica distinzione, i
valori secondari (il principio di realtà, la cultura, il sociale, il
politico) prendono il sopravvento su quelli primari (la libido, i sensi,
il "cuore", l'umano, il primordiale). Il difficile sta lì, in fondo, in
questo tipo di controllo artistico di sé come autore. Eppure in una
poesia come Dimenticare Genova (v. qui sotto), Francesca ci
riesce. E lo fa semplicemente cambiando direzione, precisamente
all'ultima strofa. Il passaggio da un ricordo plurale che svanisce
(avevamo paura...chi se lo ricorda ormai...) a una singola marcatura che
quel ricordo rinfocola avviene bruscamente con la messa a fuoco di un
primo piano, con una singola metafora (il cuore) vecchia come il mondo
ma efficace. Con una specie di passaggio cine tra un campo lungo e il
dettaglio le cose, l'umano, il politico, si conciliano.
Ma a parte queste considerazioni forse marginali, questo libro si
aggiunge alle cose più interessanti che ho letto ultimamente, quasi
tutte scritte da donne. E se questo smentisce ciò che ho appena detto
sul "genere", pazienza.
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