Beloslava Dimitrova - La natura selvaggia - Arcipelago Itaca Ed., 2017
Un libro feroce, questo che Emilia Mirazchiyska e Danilo Mandolini
hanno tradotto dal bulgaro, da quel che so la prima opera della
Dimitrova pubblicata in Italia. Uso un aggettivo volutamente forte, ma
con niente di giudicante dentro, pensando semmai a tutte le eco che
questa parola antica contiene, alla sua natura animale e animista. La
natura è selvaggia, dice l'autrice, e noi ci siamo dentro, non al di
sopra, biblicamente, per un diritto datoci da Dio, o a lato, con
l'illusione di una strategia di fuga o trasformazione, ma proprio
dentro, senza statuti o privilegi speciali. E' questa l'idea di fondo
della raccolta, uno sguardo plurimo, dall'interno e dall'esterno di sé,
su una condizione che non è nemmeno più umana, ma riguarda una natura
appunto "selvaggia" e incoercibile. Non naturante, perché se c'è
qualcosa che porta in sè non è il farsi ma il distruggersi, né naturata,
perché non sembra né perfetta né recante il segno della mano di Dio.
Somiglia semmai a quella leopardiana e matrigna de La ginestra
("Non ha natura al seme / dell’uom piú stima o cura / ch’alla
formica..."). Per questo parlo di ferocia, e in più assoluta (ovvero
priva di regole e norme), perché attiene ad una natura agnostica, in cui
la presenza divina è assente, o che Dio ha abbandonato a sé stessa.
Chi è che popola questa natura, a sua volta parte costitutiva di un
mondo? Gli uomini, certo, ma anche gli animali, alcuni dei quali
identificati, altri indistinti e inquietanti. Che però non solo sono
intesi come una complessiva anima ferox, ma sono visti e
descritti e proiettati nel corpo poetico da uno sguardo umano defilato,
da una prospettiva decentrata e a tratti de-umanizzata, extracorporea,
esercitata a volte con una singolare empatia, un mettersi nei panni,
tanto che talvolta l'attore che agisce nel testo poetico è una creatura
simbionte, un io "alieno" che abita corpi diversi e li attraversa
prestando loro la voce, una voce che diventa "interna" e che tuttavia
mantiene una connotazione doppia. Ciò ovviamente per quanto possibile,
perchè in fondo si tratta di un grande artificio retorico, che per certi
aspetti non può che riportare alla mente il Gregor Samsa di Kafka, che
si sveglia una mattina trasformato in un gigantesco insetto, e al senso
del tragico di quella grande metafora. O, se preferite, le potenti
raffigurazioni zoomorfe di Max Ernst.
Se gli animali/uomini sono emblemi anche, a mio avviso, di forze oscure
che negli uomini agiscono per vie non sempre comprensibili, come una
natura profonda, e insieme, come un riflusso di forze "altre" che dagli
uomini si rivolgono contro la natura stessa, tuttavia il registro
complessivo del libro è giocato su una violenza "fredda", talvolta su
una registrazione refertale degli eventi che "naturalmente" si svolgono,
comprese le relazioni amorose amare e difficili, senza però che il
senso di una tragedia comune ne venga minimamente sminuito. E' uno dei
punti di interesse di questa poesia, questo sentimento di ineluttabilità
implicita che si riflette anche su di un linguaggio teso, su "un testo
che sembra scritto precipitando, dove prevale la denotazione per tratti
rapidi, sincopati, quasi che non ci fosse più tempo per approfondire il
senso della caduta e nemmeno più la pazienza", come scrive Stefano
Guglielmin sul suo blog (v. QUI).
Non sfuggono a questa ineluttabilità le relazioni affettive, i rapporti
familiari, temi per lo più raccolti negli ultimi testi del libro, come
se anche in essi risiedesse una difficoltà a svolgersi senza catastrofi,
svolte brusche, lacerazioni delle carni. Anzi su queste relazioni
sembra abbattersi una definitiva speranza nihilista "che il miracolo
dell’evoluzione non accada / che non appaia l’uomo / che tu non appaia di nuovo / che sia soltanto io ad apparire" (in Essere umano, corsivo mio). L'uomo, in questa natura selvaggia, è un accidente.
Una poesia, quindi, drammaticamente originale, con tratti metafisici e
visionari, tanto diversa anche da altri poeti dell'Est come quelli
presenti su questo blog (v. QUI),
soprattutto i giovani e i giovanissimi (Dimitrova è nata appena tre
anni prima della caduta del Muro) che sembrano orientare in altre
direzioni, più lirico-oggettive e con un occhio rivolto decisamente a
occidente, la loro ricerca. (g. cerrai)