Questo libretto mi piace, oltre che per la sua qualità, per ragioni del tutto sentimentali.
E non c'è di che vergognarsene.
Non c'è molto che accumuna la mia terra a quella di Giuseppe, salvo, almeno in questo caso, una cultura contadina che sarebbe di retroguardia disconoscere, non il contrario, quella che ancora mi fa distinguere un albero da un altro, un tarassaco - se la memoria non mi frega - da una borragine (entrambi buoni da mangiare), e una buona o cattiva stretta di mano. E conosco perfettamente (e ce le ho ancora) quelle forbici da potatura che figurano in copertina, e il suono secco e metallico con cui recidono i tralci di vite.
Un libretto che probabilmente non troverete mai, ma non importa. Riflettevo incidentalmente stamattina, cercando inutilmente di trovare una edizione a stampa di un autore francese per così dire di nicchia, che la stampa - specie per opere di poesia di limitata tiratura - a volte è pari a una pietra tombale, un amen irrimediabile. Finisce così per essere proprio internet, pur con la sua volatilità, il luogo in cui sarà ancora possibile leggere certe buone cose. Questa è una delle occasioni possibili di cui approfittare.
C'è in questi versi (come in quelli di Tessa, di Loi, di Pierro, di Buttitta e molti altri) un suono, innanzitutto, un suono originario direbbe Pasolini. Sembrerebbe che la poesia lirica (e in questo caso l'elegia) abitasse da sempre nel dialetto. E forse è così, poichè il dialetto oggi è ancora quello che più si avvicina all'origine "cantata" (e arpeggiata) della poesia. C'è poi un aggancio diretto ad una concretezza che si lega proprio a quella origine e forse, se Pasolini aveva ragione (“Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”), sono la realtà oggettuale e il canto dell'esperienza diretta, non immaginata, i caratteri distintivi di questi versi. Al di là di quelli che possono essere i caratteri regressivi, conservativi, politici o "borghesi" che l'autore friulano individuava, aveva certo ragione sul fatto che il dialetto in poesia è scelta totale e totalizzante (rispetto al testo), non strumentale o evocativa come in Gadda o nella narrativa verista. C'è quindi un'immersione nella lingua, una lingua più che madre (anzi, "lingua del latte", secondo la bella espressione del poeta Vito Tartaro), quella dei lares, quella con cui, come in questi testi, si colloquia con il padre morto, perciò lingua esoterica in un certo senso, e insieme lingua familiare e della comunicazione orale. Suono e affezione, quindi, ma gestiti senza patetismi, del tutto assenti in questi testi che mantengono la loro freschezza lirica anche nella versione italiana dello stesso Samperi. Che partendo dalla scelta radicale del dialetto come lingua ponte tra presente e passato, tra vivi e morti, utilizza in forma moderna una melodia che suona malinconicamente antica, anche per chi come me non ha particolare dimestichezza con il dialetto, tenendo d'occhio le buone lezioni del Novecento italiano.