Gian Piero Stefanoni - Da questo mare - Edizioni Gazebo, 2014
Un libro intensamente religioso, questo di Gian Piero Stefanoni,
ma di una religiosità "diffusa", non dottrinale né privata - rinchiusa
cioè nei riti e nei meccanismi della fede - ma nella quale la maggior
presenza, non ostante i molteplici riferimenti a Lui, è quella di
un'etica civile (ma ve ne sono altre?) e di una pietas che non
si nasconde timidamente dietro una semplice tolleranza o una visione
disincantata, magari attraverso un asettico schermo televisivo.
Perfino quando, per un laico, può sembrare eccessivo il ricorso a una
forma-preghiera, ad una invocazione ad un Dio superiore, poi ci si
accorge che è la quotidianità stessa, come nota anche Franca Alaimo
nella postfazione, a costituire il luogo e il tempo di una meditazione
incessante su ciò che preferisco chiamare il Senso della vita (e delle
vite) che sarebbe altrimenti povera di significato. Il luogo dei luoghi,
inoltre: quella seconda sezione intitolata "8, o della città (pregando
con l'angelo)", che è come una serie di "stazioni" sulla via della croce
del vivere (come giustamente nota anche Alaimo), marcate su punti lungo
la linea tranviaria 8 di Roma. Punti che non sono soltanto "occasioni"
di una riflessione sociale, ma anche simboli e insieme richiami
culturali, indicazioni o meglio memento di eventi significativi o
tragici, come la Piazza delle cinque scòle, che rimanda al Ghetto, e
implicitamente alla Shoah, o la dedica a Marco Guzzi, figura rilevante
del pensiero cattolico, ma anche poeta a cui Stefanoni deve forse
qualche ispirazione.
La prima sezione invece, che preferisco meno per diverse ragioni, intitolata "L'amore che ti manca (Davanti alle Crocifissioni
di Manzù)" prende lo spunto dalle opere dedicate a questo tema dallo
scultore bergamasco. E' la sezione in cui, dal mio punto di vista, il
registro di "preghiera" un po' sovrasta la resa poetica, ma non la
oscura. Paradossalmente, proprio il suo essere preghiera, cioè qualcosa
che è e deve essere privato ma insieme "universale", cioè appartenente a
una ecclesia, la rende più fortemente soggettiva, un canto per qualche
verso catechistico. E' espressione dell'invocazione dell'autore a Dio,
della sua adesione a un credo. E tuttavia è anche, ed in maniera
importante, l'assunzione su di sé, nella doppia veste di credente e di
poeta, di una parte non indifferente del dolore collettivo. Nonché della
responsabilità della denuncia, a cui un artista non si deve sottrarre.
Come noto, nelle sue sculture Manzù ha spesso innestato un discorso
critico, o più eminentemente politico. Si pensi ad esempio alla Crocifissione con soldato,
del 1942, appartenente alla serie "Cristo nella nostra umanità" (otto
pannelli in bronzo a cui evidentemente si riferisce Stefanoni), nella
quale risalta la denuncia della guerra e dell'occupazione nazista. Qui
il poeta approfitta per operare una attualizzazione, seppure logicamente diversa e minore, di quella presenza nell'umano. E nello stesso tempo ribadire, a me pare, l'assoluto bisogno di riconoscere in noi e in chi ci è prossimo questa humanitas, contro ogni suo svilimento.
E allora nella terza sezione, un unico lungo poemetto di cui qui ripropongo solo l'inizio, la pietas e
la presenza si concentrano in una situazione topica e quanto mai
attuale, anche alla luce dei drammatici fatti di questi giorni. "Da
questo mare", che dà il titolo all'intera raccolta di Stefanoni, parte
da una notizia di cronaca del 2012, l'annegamento nel mare di Licata di
un migrante, un ragazzo di 16 o 17 anni, gettato in mare dagli scafisti.
Un fatto che potrebbe apparire quasi minimale rispetto alle tragedie di
questi ultimi tempi, ma il valore della vita di uno non è inferiore, né
per Stefanoni né per noi, a quella di un altro o di molti. Così questo
ragazzo diviene emblema non solamente di una situazione attuale,
sociopolitica, ma soprattutto di una condizione umana, di una
ingiustizia a cui l'uomo è esposto, di un coagularsi addosso anche ad
uno solo del male del mondo. Un emblema, in altre parole, cristologico,
cioè dell'incessante martirio in capo ad uno, che è molti. Che è, anzi, per tutti.
Un poemetto tragico-epico, che evidenzia non solo una scrittura di
grande qualità, solida, ma anche un sostrato culturale (umanistico,
direi) di tutto rispetto, ricco com'è di citazioni, rimandi, echi. Tutto
il libro lo è, tutto il libro echeggia in modo significativo, a
cominciare dagli exerga che vanno dal Cattafi di Innanzi a te, al Kerouac di Sulla strada, fino al Rilke dei Quaderni di Malte Laurids Brigge
("Bene, è dunque qui che la gente viene per vivere, ma io penso che si
muore, qui, invece"). Tutto il libro è, sotto diversi aspetti,
"modernista": la posizione esterna, per quanto fortemente coinvolta e
spesso lirica, dell'autore; l'inserzione di frammenti "culti" nel corpo
testuale; la considerazione di assunti di tipo religioso anche come
possibile ordito di un discorso poetico; utilizzo di un linguaggio
pregnante e preciso, a volte sentenzioso a volte enfatizzato, anche
graficamente, e così via.
Certo Franca Alaimo ha ragione quando afferma: " La devozione della
parola ai temi sacri, che si esplica nella lode e nella celebrazione
della bontà divina (...) se da una parte riporta la poesia ad un suo
compito strettamente etico e quasi "sacerdotale", dall'altra sottolinea
il divario tra la sua "impotenza" (nonostante il "dovere" di dire,
nonostante i suoi tentativi di fondare una religione delle cose umane e
delle relazioni tra gli uomini), e la forza fondante e fecondante della
Parola divina", cosa che va di pari passo, aggiunge più avanti, con "il
tema dell'allontanamento dell'umanità dalla fede", tema forse principale
della poesia di Stefanoni. Ha ragione, o meglio avrebbe ragione se non
scambiasse un atto di fede (di cui non discuto) con una azione poetica.
Non che uno escluda l'altra, ma questo - in questa temperie - ci è dato,
a meno che non vogliamo dire, tanto per fare un esempio azzardato, che
l'arte è morta (e con essa la speranza di dare un significato alla
realtà) con la morte dell'arte sacra. Per quanto mi riguarda preferisco,
anche da un punto di vista critico, pensare (o sperare) nella forza
fondante e fecondante della parola umana, proprio perchè credo che il problema, per moltissimi uomini e donne, stia nell'allontanamento dell'umanità dall' uomo, o dell'uomo dalla sua umanità. Anche artisticamente.
Con questo tuttavia non voglio certamente mettere in dubbio la forza sincera dell'ispirazione di questo bel libro, denso e pensoso. In cui mi sembra di intravedere anche come una volontà, anzi un acuto desiderio
di una rivelazione, di una epifania che si manifesti nelle cose del
mondo, nel suo male conclamato, e dia loro almeno un po' di significato,
una speranza. Un desiderio che, laicamente, penso che appartenga a
tutti. (g.c.)