Dopo il romanzo "L'uomo senza radici" era necessario per me leggere anche la poesia, non meno eccellente, di Dieter Schlesak, in questa bellissima antologia a cura di Stefano Busellato, Settanta volte sete,
edita da ETS, Pisa 2006. Frutto del lavoro di un "conciliabolo" di una
quindicina di traduttori, supervisionato dallo stesso autore che ne ha
approvato la forma definitiva, il libro rappresenta insieme la prima
antologia e la prima traduzione italiana del lavoro poetico di Schlesak.
Il titolo, che certamente l'autore ha approvato, gioca tra un rimando
alla risposta evangelica di Gesù a Pietro ("Signore, quante volte dovrò
perdonare mio fratello se pecca contro di me, fino a sette volte?" "Non
ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette", vale a dire
sempre. e l'allusione ad una
inestinguibile sete di vero e di significato dell'esistenza, di cui
Schlesak è insieme schiavo e cantore, nello stesso tempo feroce critico e
appassionato indagatore, e con la quale bisogna confrontarsi sempre e
per sempre, primo precetto e impegno di un poeta.
"Un'opera che pone al centro la parola, ma che a un tempo si muove
nella sua periferia; che la carica di un'attenzione microtonale,
maniacale a tratti, poiché nutrita dalla consapevolezza che essa è
soltanto un segno, non reificazione dell'autoreferenza. Come l'oracolo
di Delfi, quando è portata alle sue massime tensioni espressive essa non
dice, indica, accenna a una dimensione extralinguistica verso cui la
parola vuole tornare perché da là proviene. (...) Una poesia che
certamente spiacerà a coloro che cercano nel verso una ghirlanda di
parole con cui abbellire il dato di fatto. Il reale, al
contrario, è posto sotto una critica tagliente che affonda fin nelle
radici dalle quali esso trae il proprio mortale nutrimento: nel razionale,
nella concatenazione sistematica e grammaticale che forma un'omogeneità
fenomenica fasullamente impermeabile a ogni condizionale e che già
Parmenide smascherava dicendo essere «tutte e soltanto nomi le cose che i
mortali hanno stabilito persuasi che fossero vere». (...) Dolore,
storia, lucido sguardo sul presente che per Schlesak soffiano come
sinonimi da uno dei più importanti mantici della propria poetica - la
tematica dell'esilio. Dapprima subito come fuga dal regime
comunista, poi scelto come espatrio volontario per non restare preda di
una qualsivoglia carta che pretenda di inscrivere un'identità. L'esilio
passa da dato biografico a categoria esistenziale. (...) ed ecco che
dopo la dissidenza rispetto alla dittatura rossa, inizia un diverso
esilio, la scoperta di un assolutismo ancora più rigido ed endemico -
comincia la resistenza alla dittatura capitalista. Maggiormente
schiacciante questa perché priva di riferimenti diretti da poter
colpire, perché "microfisica", un assoggettamento che prende il volto di
ciascun assoggettato, e non c'è schiavitù peggiore di quella che fa
credere al forzato di essere uomo libero. (...) Per Eliot «il dovere del
poeta è far affiorare la poesia dalle risorse inesplorate del non
poetico», le liriche di Schlesak sono uno sguardo su quanto di meno
poetico sia dato a vedere, sono un non volere chiudere gli occhi
sull'essenza grettamente prosaica dell'esistenza estraendone ragioni per
una resistenza poetica che come Michelstaedter non si persuade «essere
vita la qualunque vita si viva»". (dalla prefazione di Stefano Busellato).
Da leggere anche la recensione di Fortuna Della Porta su "Senecio" (reperibile QUI)