Sonia Lambertini - Danzeranno gli insetti - Marco Saya Edizioni, 2016
Gli insetti danzano (anzi danzeranno) una giga sul cumulo di terra che
ci seppellisce, alla fine di "una maledetta partita". E' questo il tema
di fondo nel libro di Sonia Lambertini, in cui la morte è presenza
costante, in diversi aspetti che cercheremo di vedere. Se nella
prefazione Mario Fresa ci dice che qui abbiamo a che fare con "l’angoscia irreversibile di uno scivolamento continuo nelle tenebre della nullificazione", in cui il poeta è "martire-testimone
del proprio auto-annullamento", ci dice altresì che questa dolente
visione "non giunge ad una sintesi finale". Potrebbe essere altrimenti?
L' indagine sulla morte è, soprattutto letterariamente, destinata da
sempre al fallimento, poiché si scontra con l'inconoscibile, se la si
guarda filosoficamente, o con il limite dell'immaginazione. Oppure -
d'altra parte - si frange contro lo scoglio della paura di andare
"oltre" (oltre ad esempio un corpo "in scadenza"), che impedisce
all'artista una vera catàbasi, una "discesa", a mio avviso fattore
essenziale per una buona poesia (v. QUI).
Mi pare che Sonia Lambertini prenda
atto di un sentimento attuale (diverso cioè da quello che si poteva
verificare in passato), ovvero quello di una decadenza del corpo che è
specchio di una decadenza più generale, che è costante e nello stesso
tempo "istantanea" (tanto che "misurare l’attimo / è il senso del mondo, / un’azione libera e indipendente"), così come l'esistenza stessa, dispersa in un presente dilazionato. La
morte oggi è meno caricata di spiritualità, in una società forse
intimamente individualista e agnostica, diventa evento "finale", un nec plus ultra, delle
colonne d'Ercole oltre le quali, in un tempo così senza speranza come
il nostro, è impossibile riporre aspettative di redenzione. Difficile
guardare "avanti", per così dire, senza guardare contemporaneamente
indietro ("Due passi in avanti / conto fino a tre / mi guardo alle spalle / e vedo che non sono / mai
arrivata più in là del sei"), rischiando, come la moglie di Lot,
l'impietramento di fronte alla constatazione del nulla. La morte è
un'esperienza ineludibile e insieme un'aporia, è qualcosa -
paradossalmente - che conosci in un certo qual modo per sentito dire,
poiché "hai visto la tua fine / proiettata decine di volte / sul
telo bianco degli altri". Sì, è un gioco d'ombre (anche come fantasmi),
di proiezioni (anche in senso cinematografico, quel "telo bianco"), di
destini incontrollabili affidati a gesti apotropaici, scaramanzie ("sono nelle mani / del piede destro / quando tocca terra"), è un terrore che ci tiene in vita ("senza la paura non so chi sono", ripete Lambertini, e del resto, dice Mario Fresa "le parole [di un poeta] giocano, in fondo, sempre e soltanto con
la morte"). Sonia, come artista, non rimanda il pensiero, in un certo
senso se ne assume la responsabilità, anzi può permettersi di ammonire
("Vorrei dire / a tutti gli umani / con l’aria importante [...] che / l’aria sotto terra non c’è / tantomeno gli aggettivi..."), il tempo non aiuta ("Chi ha detto che c’è tempo / è uno sporco bugiardo, una spia"), è effimero e fugace come un fiore di ciliegio, simbolo principe di caducità ("Sul ramo di ciliegio / i fiori hanno il capo bianco / in aprile, ho il veleno in bocca"). L'abitante tipo di questo terrain vague,
di questa pre-morte fredda, avrebbe potuto essere (o almeno Lambertini
avrebbe voluto che fosse, ci aveva pensato) lo Strauch di Gelo di Thomas Bernhard, citato in una purtroppo troppo breve sezione del libro (Frammenti per Strauch),
composta da un "prologo" e sette testi di pochi versi, sintetici e
tuttavia molto interessanti. Morte o assenza, dunque, cioè un'altra
condizione nella quale la comunicazione è o con un'ombra o senza senso
(proprio inteso come direzione verso cui orientarsi). Le ombre possono
essere "vecchi figuranti" le cui ossa però molto materialmente
scrocchiano, come in una Totentanz barocchetta, una danza macabra che si
reitera ogni volta in cui il mondo materiale si specchia con il nulla a
venire, perdendo miseramente il confronto; o quelle in cui comunque,
come dice Fresa, "si inciampa" ogni giorno, i dubbi, le inquietudini, il
"gioco delle parti".
Eppure in tutto questo c'è poco dell'angoscia
così topica in tanta poesia attuale ma certo anche poco della
meditazione foscoliana - i tempi cambiano, non ci sono più urne dei
forti che accendano l'animo a egregie cose, non ci sono più nemmeno le
egregie cose - direi piuttosto una maniera di affrontare la questione
come a testa alta, con l'individualismo esistenziale quello sì così
diffuso oggi, e un certo piglio che si riflette anche nella scrittura,
asciutta, precisa, corrente, immediatamente decifrabile e tuttavia
capace di molte belle sfumature, specie nella sesta sezione, quella che
decisamente preferisco e da cui ho tratto alcuni dei testi qui
riportati, in cui il tema, pur forte e universale, non perde la sua
minacciosa presenza ma decanta in accenti a tratti lirici, più
profondamente personali, intimi, "veri". (g. cerrai)