Venerdì, 27 giugno 2008
Pubblico qui una seconda lettura, su punti diversi e con note, fatta da Alfredo Riponi sul bel libro di Daniel Heller-Roazen "Ecolalie - Saggio sull'oblio delle lingue", edito da Quodlibet. Anche da una lettura frettolosa tipica dei blog (brutta abitudine che andrebbe contrastata, meglio scaricare il testo e leggerselo con calma) si possono afferrare i non pochi elementi di riflessione, non solo dal punto di vista critico ma anche da quello della scrittura poetica, della poesia "poetante". La precedente lettura è reperibile qui
Daniel Heller-Roazen, Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue
“Il bambino si diverte a ripetere parole per se stesse, per il piacere che gli procurano e senza alcun adattamento agli altri, senza interlocutori.” (J. Piaget)
“Ce qui marque principalement ma petite enfance, outre la recherche, la capture, le maniement des bêtes, c’est mon bégaiement (je ne puis ‘lancer’ les phrases qui débutent par une voyelle etc.) … ” (P. Guyotat)
“Ci sono molte passioni in una passione, e ogni sorta di voci in una voce, tutto un rumore, glossolalia. ” (G. Deleuze - F. Guattari, Mille piani)
L’apice del balbettio. L’infinita produzione dei suoni del bambino, segno che contiene in sé tutte le lingue. Il bambino è costretto a sacrificare la molteplicità all’uno, alla lingua madre. Gelosia della lingua madre che non tollera l’ombra di un’altra. Dal balbettio al silenzio, il bambino sembra perdere la sua voce. L’essere parlante del bambino è ora costituito da un universo di suoni finiti contro l’infinità del balbettio. “Rimane l’eco di quel balbettio indistinto, immemoriale…”.
Aleph. Lettera dell’alfabeto ebraico impronunciabile. “Un suono che è uno spasmo toracico”. Aleph è solo il segno “dell’inizio del suono nella gola, udibile quando essa si schiude” (Spinoza). Così, sul Sinai Israele, secondo Maimonide, “non udì altro che un solo suono, e lo udì una volta soltanto”. “Secondo Scholem quel suono fu la lettera aleph della parola anokhi (io) con cui inizia il primo comandamento.”
La voce udita sul Sinai diventa la voce silenziosa della scrittura che inizia con una lettera di cui non si ricorda il suono, così come il bambino non ricorda i suoni del suo balbettio. La parola, l’alfabeto, la scrittura “custodisce l’oblio” della voce.
Fonemi in via di estinzione. Parallelo con i fonemi perduti delle lingue, come la e francese, che rimane però nella poesia, lettera silenziosa che riappare e conta, nel conteggio delle sillabe. Verso di Mallarmé: “Ce lac dur oublié que hante sous le givre”, dodici sillabe se è fatta risuonare la e finale di hante.
“La musica delle lettere, secondo Mallarmé, rinnova il linguaggio radicandolo nell’inconscio e nel corpo.” 1. Altri codici ha la poesia rispetto al linguaggio codificato. “La tua ineffabile presenza \ rischiarata nei codici della poesia” 2 .
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Sabato, 7 giugno 2008
“Il semiotico è il livello musicale della poesia. Retrospettivamente, è ciò che il bambino articola con il suo balbettio prima di imparare le parole…” (J. Kristeva)
Ecolalie, una sinfonia di testi su una sola lingua, una sinfonia di lingue per un solo testo.
La perdita dei suoni: ecolalia infantile plurilingue, lingua di Dio (aleph), fonemi silenziosi - La morte delle lingue, la loro reviviscenza sotto altre forme, la lingua perduta o proto-lingua – Lingua (della) madre, sfide grammaticali, Canetti, Wolfson, Abu Nuwas, Landolfi – Babele, abitare la lingua. Il libro di Heller-Roazen è formato da capitoli che s’intersecano, dove la linguistica, la psicanalisi, la letteratura, s’incontrano a partire dal dubbio sollevato dall’origine del linguaggio, sintomo creativo che diviene a sua volta segno di una mancanza originaria, di una perdita che perdura. Nell’infanzia avviene il vero processo d’apprendimento d’una lingua che si struttura sopra frammenti ecolalici. Infiniti nella loro varietà, questi frammenti contengono potenzialmente tutte le lingue. Per apprendere la lingua madre il bambino dovrà sacrificare questa molteplicità all’uno. “Rimane l’eco di quel balbettio indistinto, immemoriale…”. L’ecolalia che ancora portiamo in noi.
A quella prima perdita necessaria di cui non ci dimentichiamo, faranno seguito altre perdite: la perdita degli dèi (cap III Aleph), la perdita di fonemi inutilizzati (cap. IV Fonemi in via di estinzione). Più o meno necessarie, più o meno traumatiche, struttureranno il nostro inconscio e riappariranno nelle espressioni visibili della religiosità e creatività umana, nella poesia.
La parola, l’alfabeto, la scrittura “custodisce l’oblio” della voce. La scrittura diventa il segno di una metamorfosi dolorosa per la ninfa “Io” di Ovidio (cap. XIII La mucca che sapeva scrivere), come per scrittori e poeti in esilio (Arendt, Brodskij). Dalla voce può anche sorgere un divieto di metamorfosi (Canetti – cap. XVI), parola d’ordine o sentenza di morte simbolica che significa “tu sei già morto”. “Quella che ascoltiamo” scrivono Deleuze-Guattari in Millepiani, a proposito di Canetti (enantiomorfosi) “è una parola d’ordine che è sentenza di morte, simbolica, iniziatica, temporanea”. La “lingua-senza-corpo che scrive” nel racconto Valdemar di Poe (cap XV Aglossostomografia).
La lingua materna può diventare anche prigione, la madre di Canetti (nel primo tomo della sua autobiografia, La lingua salvata) lo imprigiona nella “sua” lingua materna, che non è più la lingua di famiglia, ma la “lingua della madre”, il vincolo affettivo. L’incontro con la scrittura si rivelò decisivo per Canetti, ma capì che per la madre “il tedesco era la lingua dell’intimità e dell’affetto”, “il bambino era solo il sostituto del padre morto e dei loro colloqui d’amore spezzati”. L’acquisizione della nuova lingua non fu una lingua straniera, ma “una lingua madre innestata con ritardo e con vero dolore… una seconda nascita”
Le altre lingue che si mescolavano nella sua infanzia nomade hanno relegato il bulgaro nell’oblio del paese in cui era nato. Nel mettere su carta i suoi ricordi d’infanzia, scrive Canetti, “la traduzione si è compiuta spontaneamente nel mio inconscio”, quindi non c’è alcuna deformazione. La lingua dell’infanzia dimenticata trova una nuova musica attraverso una nuova lingua, ma quei suoni infantili della lingua dimenticata sono ancora dentro di lui, agiscono inconsciamente, sollevano veli, echi, designano una perdita. “È perdendo la madre che si scopre che la propria lingua madre è sempre già perduta”. Come la lingua della poesia, che è sempre un’altra lingua tradotta dalla lingua madre, scrive Marina Cvetaeva.
Un autore che non figura nel libro di Heller-Roazen, Samuel Beckett, potrebbe introdurre al capitolo “schizofonetica” e costituire l’anello mancante della catena, tra parola d’ordine, lingua affettiva e metamorfosi linguistica. In Beckett (Compagnia) la voce dice “Tu sei questo e nient’altro”: corpo riverso nel buio, immobile. È il libro della sua infanzia mescolata indissolubilmente ad un presente costruito sulle parole. La voce sembra rivolta ad un altro e inventata per tenersi “compagnia”. “Parla di sé come di un altro. Immagina anche se stesso per tenersi compagnia”. Come Beckett, Wolfson scrive il suo libro in francese e parla di se stesso alla terza persona. In “Logica del senso” (LS), Gilles Deleuze scrive che la lingua materna è “alimentare e escrementizia”, legata cioè alle funzioni del corpo, lingua inglese e cibo indigeribile sono le due minacce della madre al bambino Louis Wolfson (LS, p. 81). I suoni della lingua materna sono dolorosi e devono essere soffocati traducendoli in un’altra lingua. Si potrebbe dire che lo schizofrenico ha bisogno di questa nuova “lingua straniera solo espressiva” (LS, p. 81) per staccarsi dall’oggetto amato-odiato che è il seno materno. Il seno non esiste in funzione, ma preesiste alla bocca che succhia. La voce materna minaccia di sottrarlo: non odore di latte, ma di senso, un senso alterato dagli ordini a cui il bambino dovrà sottrarsi per scoprire “le proprie profondità”. “Per il bambino il primo approccio con il linguaggio consiste appunto nell’afferrarlo come modello di ciò che si pone come preesistente, come rinviante all’intero campo di ciò che è già lì: voce familiare che veicola la tradizione, in cui si tratta già del bambino per via del suo nome e in cui deve inserirsi ancor prima di capire” (LS, p.171). Beckett sceglie il francese sottraendosi alla lingua materna che “ordina” di tornare a casa, impone gioghi affettivi e impedisce di scrivere chiaramente. Ma tornerà all’inglese, all’infanzia, negli ultimi libri. Badiou, analizzando “Worstward Ho” di Beckett, scrive: “Beckett non lo ha tradotto in francese, tanto che “Worstward Ho” sembra esprimere per lui l’irriducibilità della lingua materna. […]. Esistono alcuni testi in inglese che Beckett non ha mai tradotto in francese, e che costituiscono i resti di un qualcosa di più originario della lingua inglese per questo autore…” (Inestetica, Mimesis 2007). Per Wolfson è la costruzione di una “Tour de babil” (Torre di balbettio) che nel suo “cervello ecolalico” guarisce, o cerca di guarire, “le ferite inflitte dai suoni della lingua materna”.
Il libro si conclude con un apologo sulla vita di Abu Nuwas, l’analisi di un racconto di Landolfi e un ritorno a Babele. Siamo tutti eredi degli abitanti senza memoria dell’ultimo “frammento” della Torre di Babele. Forse, conclude Heller-Roazen, “non abbiamo mai lasciato la torre, ma non sappiamo di abitarla”, ovvero di “abitare la lingua”, un’unica lingua dimenticata, respirando l’aria di molte lingue.
Alfredo Riponi
(lessness.splinder.com)
Daniel Heller-Roazen, Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue, Quodlibet, Macerata 2008, pp. 264, Euro 24
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