Dalle
mie parti (Toscana, Valle dell'Arno, piana di Pisa) si chiamava
"posato" il pane di un giorno o due prima, quando stando lì nella
credenza (la madia) perdeva un pò dell'umidità eccessiva di cui lo caricano i
fornai per fare peso. A me piace il pane posato, i lieviti e le farine con cui
è impastato acquistano aromi più maturi, e anche il pane industriale - quando è
posato - assomiglia un pò a quello dei contadini che durava quindici giorni.
A
volte mi succede anche con i libri che mi mandano gli amici, che il tempo o le
faccende quotidiane mi hanno costretto a mettere momentaneamente da parte. nel
mucchio delle cose da fare. Come questo di Tonino Vaan (Antonio Vasselli),
"Cosmesi", uscito oltre un anno fa per i tipi de L'Arcolaio, con
prefazione di Stefano Guglielmin.
Riprendere un libro in mano è un pò un'avventura. Si comincia dal titolo,
dall'intendere che cosa significhi il titolo che l'autore ha scelto. Cosmesi in
questo libro, si può supporre, ha una valenza tristemente ironica e in qualche
modo rassegnata. Abbellire il mondo, o semplicemente la realtà circostante,
l'esperienza quotidiana delle relazioni e degli eventi, non è facile, non è
risolutivo, è un tentativo destinato ad abortire. Anzi là dove si presenta, o
dove la realtà si maschera, la bellezza è vanitas, travisamento, illusione.
Inoltre, abbellire una realtà non soddisfacente non può essere la missione
della poesia, come Tonino sa bene. Semmai quello del poeta è un lavoro di disvelamento,
per quanto bello e artistico. Tuttavia, il poeta non rinuncia al tentativo di
dare un ordine al suo vissuto, proprio quell'ordine (cosmos) di cui cosmesi è
parente stretta, sapendo che "un trucco leggero proietta avanti / certi
nostri piccoli dettagli".
Da questo dissidio di fondo Vasselli non si lascia distrarre. Deve percorrere
quel labirinto esperienziale a cui accenna Guglielmin in prefazione, e lo fa al
meglio, pur nella consapevolezza che anche il labirinto è ordinato, ma non se
ne esce. La scrittura di questo percorso è interessante. Spesso preceduta o
seguita da exerga eterogenei, (anche autoprodotti, anche di estrazione
giornalistica, anche affastellati) come trampolini di lancio, non solo viatici
o conferme di un'idea, ma anche idee fertilizzabili e/o sviluppabili, essa si
svolge per ritmi e metri non condizionati se non dalla necessità di dire, e
quindi liberi, con rari enjambements e con catene sintattiche che occupano
l'intero verso, riempiendo i vuoti (o il vuoto, microscopico o siderale
che sia). La poesia di oggi, quella di Tonino compresa, è infatti poesia degli
interstizi o di posizionamento tra essi, non affronta i grandi temi se non
fluendo liquidamente tra essi come acqua, occupando gli spazi lasciati
disponibili da una cultura postmoderna in crisi. Questa scrittura è di per sé
asciutta, antilirica, perchè modernamente consapevole della necessaria economia
del discorso, di una sorta di dimagrimento della parola, o forse perchè non
sarebbe possibile altrimenti. Perciò anche il livello retorico è essenziale,
scarso l'appoggiarsi a metafore o simboli, o altri particolari aggeggi,
ricorrente l'uso di un dire quotidiano e popolare, che peraltro ha non pochi
precedenti nella poesia del Novecento, ma qui con molta meno ironia rispetto
ai nomi che ci potrebbero venire in mente. Niente voli pindarici o sbalzi di
tensione, insomma, in questa scrittura che tuttavia è di trama
fitta e intreccia una interessante conversazione con il lettore, che si svolge
per incontri, in testi che salvo qualche eccezione si aprono e si chiudono, ma
con una specie di appuntamento all'incontro successivo, a un prosieguo di un
discorso condivisibile. Da qui quel fiilo di Arianna, quel che di rizomatoso a
cui accenna sempre Guglielmin, sostenuto anche da una titolazione di brano in
brano che assomiglia ai sassolini di Pollicino (es.: "...i nostri
pomeriggi lunghi un crepuscolo...";"...quando giunge da una lettura
una memoria...";"...un senso di asfissia e
resistere...";"...resistere...";"...esistere.") e che
può anche essere letta orizzontalmente come degli ulteriori testi. Le
eccezioni a cui alludevo riguardano tre serie (vasche semiolimpiche, terra dei
segni e torre maremma) che oltre ad essere tre corpi organicamente costruiti
segnano a mio avviso anche una variazione rispetto allo stile consueto di Vaan,
qui ancora più asciutto, smagrito di molti connettivi, più "cercato"
o se volete compatto, e sotto vari aspetti più interessante in prospettiva. E'
forse per questa ragione, o magari anche per la mia passione per i poemetti
(cosa a cui in effetti assomigliano) che sono i testi che pubblico in questa
occasione.
Sul piano della narrazione, che somiglia in qualche modalità espressiva
al conterraneo Ceccarini (vedi), il libro procede per agnizioni o epifanie laiche,
piccole meditazioni, anche pop, e rinvenimenti di fatti e dolori
generalizzabili, in un procedere in cui c'è poco posto per l'io, molto
per un noi però personale di chi si sente parte di un genere umano acciaccato
con cui ci tocca essere solidali, perchè da soli non ce la facciamo a
sopportare questo disagio di vivere, un noi anche quando Tonino parla, in una
bella poesia senza fronzoli, della sorella morta. E allora ecco che appaiono
luoghi, paesaggi, incontri, frammenti, percorsi, bicchieri di vino o di
campari, stanze, donne, tagli di luce, visioni, chilometri di strade, facce del
sistema. Ma tutto è osservato come lateralmente, come quando si guarda una cosa
ed essa ci suggerisce qualcosa di collaterale e inquietante, che trascende la
cosa stessa, diventa "l'ossigeno di una visione", "ci
riappropria ad un senso l'osservare / che prevale e resiste / come una storia
d'amore", consapevoli però che "da una vista come scavo / il primo
degli allargamenti è un varco di solitudine". Fortunatamente in questa
visione e solitudine (del labirinto, del tentativo reiterato di trovare
l'uscita) il poeta non indulge a minimalismi né ad aforismi apodittici, non si
ammanta, dice solo la sua, con molta franchezza, e con quella onestà
intellettuale che qualcuno ha rilevato e che oggi è un vero valore aggiunto.