Annamaria Ferramosca - Ciclica - La Vita Felice, 2014
Questo è il primo libro di Annamaria Ferramosca che leggo. Dovrò quindi basarmi unicamente su quanto posso trovare qui e ora, su quanto la sua poetica e la
sua scrittura esprimono adesso.
Dice Ferramosca in una nota che chiude il volume: "Queste poesie nascono con l’impronta chiara di una insofferenza che chiede d’essere placata, una
necessità lancinante di catturare, diradando ogni nebbia che disorienta, anche minimi brandelli di senso nella nostra vita dell’oggi
(...) la consapevolezza di essere sul bordo dell'effimero", cercando "possibili risposte, facendosi apertura all’altro, paziente ricerca di
scambio. Portarsi sul margine della finitezza come misura dell’essere (corsivi miei).
Partire dalle postfazioni o prefazioni è sempre un errore, e forse lo è di più partire dalle note autoriali, spesso autoreferenziali. Ma potrebbe essere di
qualche utilità. Bisogna insomma chiedersi se sia questa la cifra del libro, la poetica dichiarata. Diviso in quattro sezioni ( Techne, Angelezze, Urti gentili, Ciclica) il libro in effetti sembra essere mosso dalla necessità di esercitare la scrittura (anche nel senso di
stile) all'interno di un perimetro abbastanza circoscritto, di cui appunto Ferramosca perlustra i bordi, il margine, un territorio per lo più
domestico o con lo sguardo rivolto verso la speculazione di una modernità comunque vicina, quella che ci tocca tutti come uomini e donne "liquidi" e proni
alla tecnica, quella frequentata per intenderci da varie menti che vanno da Heidegger a Bauman a Severino, come avviene appunto nella prima sezione che ho
citato. Lì la téchne non è più l'arte di saper fare cara agli dei, ma qualcosa che ipoteca una quota della nostra vita in nome di una
comunicazione irreale e problematica, in apparenza sempre disponibile, nella sostanza volatile come la RAM di un computer. Un piccolo specchio di una morte
posticipata, in ultima istanza. Il senso di finitezza si concretizza, in maniera del tutto ossimorica, nel virtuale, in qualcosa che è essenzialmente -
invece - non concreto e drammaticamente binario (0,1...) - e in fondo manicheo, si o no, c'è o non c'è. La vita cosiddetta reale è tanto diversa?
Non c'è forse l'esigenza anche in essa di avere risposte definitive, che escludano - nella più agognata delle ipotesi, ammettiamolo - tutto il resto o
tutti gli altri? L'esigenza di una semplicità? O viceversa uno stimolo univoco e forte? Forse pensa a questo Ferramosca quando parla di "urti":
certamente quelli che la vita ci riserva, inevitabili, ma che secondo l'autrice è possibile tentare di metabolizzare per mezzo della parola, della poesia,
dare loro un significato per così dire universale, un valore aggiunto, trasformarli in urti gentili, magari tornando alle
origini, a luoghi a cui si riconosce il potere ancestrale di antichi lares. O rivolgendosi a "presenze", ad angelezze, rappresentate da una natura
che si può osservare senza ansia perché sostanzialmente benevola, domesticata o introiettata, che ci "bisbiglia" un suo senso, il senso, per quanto in minimi brandelli; o meglio ancora dalla vita sorgiva, dai giovani, dai figli che simboleggiano - loro sì, davvero - la ciclicità per eccellenza
anzi, come affermava Gibran Kahlil Gibran, frecce scagliate verso il futuro. La ciclicità poi, in questa poesia, si manifesta anche in avvenimenti minuti,
insonnie, criticità sociali, intermittenze del cuore, in tutto e di più di quella "ciclica spirale che tutti e tutto avvolge", dice Ferramosca. Tenere
insieme questo gorgo, che si presume nietzschianamente ricorra, con l'effimero e la finitezza che comunque ci stroncano è la mossa poetica su cui scommette
questo libro. Il tema di fondo è drammatico ed è per questo forse che un po' di drammaticità in questo libro mi manca. Riscontro talvolta una sensazione di
serena freddezza che non riesco a sopprimere, un controllo stilistico - per così dire - delle emozioni (meno nelle poesie della sezione Ciclica,
nelle quali la dimensione affettiva, l'amore, ripristinano quella "luce di una comune possibile empatia" a cui comunque Ferramosca sinceramente aspira, e
si sente poiché sinceramente crede nella poesia). Può darsi che si tratti di una impressione (ripeto, è il primo libro di Ferramosca che leggo) che vada rivista. In questa scrittura monologante
o raramente dialogica (lo dice l'autrice stessa) in cui mi pare di intravedere echi della poesia confessionale (la Plath, in Nascita ad esempio),
del simbolismo francese, qualche traccia di Montale ecc. (ma non è questo che importa) tuttavia lo stile è assai personale, abile e linguisticamente
accurato (ma francamente tralascerei un po' di quelle parole artatamente composte come muovemuore, fuochipensiero, fioricappero o scomposte come ac-cadere,
corri-spondo, as-sentiva ecc.), per lo più costruito in ininterrotte cascate discorsive ipotattiche in cui la costruzione del discorso finisce, anch'esso,
per avvolgere il lettore, in maniera assolutamente funzionale, in una spirale centrifuga che lo lancia verso quel margine della finitezza di cui
parla l'autrice. Aggiungerei solo una cosa che è un altro merito di questa raccolta: c'è poco "corpo" e relative declinazioni, per fortuna. Credo che la
poesia, femminile o meno, per un po' sia bene che ne faccia a meno. (g. cerrai)