Già che siamo in tema, e c’è una certa euforia in giro, riprendo qui una poesia dedicata a Barack Obama, niente meno che del premio Nobel per la LetterarturaDerek Walcott. E’stata “scoperta” ieri dalla Associazione Culturale Gattogrigio sul Times di Londra ed è stata tradotta molto bene da Eleonora Matarrese, scrittrice e traduttrice. Inedita in Italia, credo, vale la pena di essere diffusa. Ringrazio tutti quelli che ci hanno lavorato, a cominciare dalla traduttrice.
Dal tumulto emerge un emblema, un’incisione,
l’alba, un giovane Negro in cappello di paglia e tuta da lavoro,
un emblema d’impossibile profezia, una folla
come divisa dal solco scavato dal mulo,
separata per il suo presidente: un campo screziato di cotone
come neve
quaranta acri, di folla dai presagi prevedibili
che il giovane contadino ignora essere i suoi avi,
mai dimenticati, dai capelli di cotone
mentre sono allineati da una parte, è
una tesa
corte di gufi con gli occhiali e, sul campo
che gli sfugge –
uno spaventapasseri gesticola, bollandolo
con rabbia.
Il piccolo aratro continua su questa pagina rigata
oltre il suolo che geme, l’albero che lincia, la nera
vendetta del tornado
e il giovane contadino avverte il cambiamento nelle vene,
nel cuore, e muscoli, tendini,
finché la terra non rimane aperta come una bandiera, come
la sicura luce dell’alba che colpisce il campo
e i solchi attendono la semina.
Derek Walcott 4.11.2008, traduzione in italiano di Eleonora Matarrese
Una poesia del diciannovenne Barack Obama, dedicata al nonno che l'ha allevato e pubblicata su un giornaletto studentesco. Come dice Ian Mc Millan, ci si sentono dentro letture giovanili, Snyder, Bukowski, i poeti Beat. Una “instant translation”, con qualche difficoltà slang, di cui scuserete eventuali svarioni.
Papà
Sedendo nella sua poltrona, larga e malridotta,
macchiata di cenere,
pà cambia canale, si versa
un altro goccio di Seagrams, liscio, e chiede
che cosa fare con me, un verde giovanotto
che trascura di considerare
gli inganni e le falsità del mondo, giacchè
le cose sono state facili per me;
fisso duramente la sua faccia, uno sguardo
che scivola via dalla sua fronte;
sono sicuro che è ignaro dei suoi
scuri, acquosiocchi, che
lanciano occhiate in varie direzioni,
e i suoi lenti, sgradevoli tic,
che non cessano.
Ascolto, rispondo con un cenno,
ascolto, mi apro, finchè mi avvinghio alla sua pallida,
beige T-shirt, gridando.
Gridando alle sue orecchie, che pendono
con pesanti lobi, ma lui ancora dice
le sue battute, così gli chiedo
perché è così infelice, e lui risponde…
ma non mi importa più, perché
lui la faceva dannatamente lunga,
e da sotto la sedia tiro fuori
lo specchio che avevo messo via; sto ridendo,
ridendo forte, il sangue che affluisce veloce
dalla sua faccia
alla mia, e lui si fa piccolo.
Un punto nella mia mente, qualcosa
che può essere spremuto via, come
un seme di cocomero
tra due dita.
Pà si prende un altro goccio, puro,
indica la stessa macchia
ambrata sui suoi shorts che avevo addosso,
e mi fa annusare l’aroma
che ne proviene; cambia canali, recita
una vecchia poesia che scrisse
prima che morisse sua madre,
si mette in piedi, strilla, e chiede
un abbraccio, appena mi schermisco,
le mie braccia che a malapena avvolgono
il suo spesso collo untuoso, e la sua larga schiena;