La ricostruzione del senso / la distruzione del concetto
(appunti di poetica, anche se non pare)
Nel 1965 Joseph Kosuth (Toledo, USA, 31 gennaio 1945) "inventa" l'arte
concettuale, ovvero un'arte come attività significante e sul
significante; come superamento dei limiti del medium; come opera
preminente rispetto alla sua stessa esistenza di oggetto; come idea e
linguaggio in sé; un'arte "in cui l'accento cade sull'intento del
creatore, mentre l'oggetto su cui l'intenzionalità dell'artista si
concentra può essere puramente accidentale" (P. Rescigno). Kosuth
comincia con una installazione intitolata "Clear, square, glass,
leaning", quattro lastre quadrate di vetro appoggiate al muro che recano
ciascuno rispettivamente una scritta denotativa corrispondente ad una
reale qualità: trasparente, quadrato, vetro, appoggiato (inclinato).
L'idea è lanciata, ed è un'idea sostanzialmente di "linguaggio". Ma
forse la sua opera più famosa, sempre del 1965, è "One and three
chairs", un'altra installazione composta da una sedia, dalla sua
riproduzione fotografica a grandezza naturale e da un pannello che
riporta la definizione della parola "sedia" di un dizionario (ciò che
qui si vede sopra nella fotografia è una delle diverse repliche, già una
questione, questa, a sé stante). Il processo, secondo alcuni critici, è
quello del passaggio dal reale alla sua rappresentazione, fino al
concetto, alla sua definizione astratta, un codice che deve essere
interpretato mentalmente al di là della sua collocazione, del contesto o
perfino della presenza dell'oggetto stesso. E' un gioco, quindi direi,
che porta Kosuth da Duchamp, spesso sotto traccia nei suoi lavori
(l'oggetto "già fatto"), verso Wittgenstein, il linguaggio come
raffigurazione logica del mondo. Nei confronti del fruitore l'invito è a
conciliare, più con l'intelligenza che con la rappresentazione
oggettuale, la realtà con le sue codificazioni (rappresentazioni)
iconiche o logico linguistiche. Un'esperienza riproducibile, tra
l'altro, di fronte a qualsiasi oggetto della vita quotidiana. Una
esperienza critica, quindi, nei confronti della realtà come "originale",
intendendo questo termine anche nel senso che comunemente si
attribuisce ad un'opera artistica (originale/copia), oltre a quello di ab origine. Il "godimento" è intellettuale, la metafora è della diffidenza rispetto al "vero", a me pare. Kosuth in un certo senso "triplica" (e criticizza) Magritte e la sua pipa ("Ceci n'est pas une pipe", La trahison des images 1928/29), ma si può dire anche che costruisca un ready made plus, in cui l'oggetto da solo non basta a conquistare lo statuto di opera d'arte.
Nel 2003 Nemanja Cvijanovic, nato nel 1972 a
Rijeka (Croazia), dove ancora vive e lavora, ma formatosi
prevalentemente a Venezia, "riscrive" con lo stesso titolo l'opera di
Kosuth, un'operazione postmoderna - eh sì per una volta usiamo questo
termine non a sproposito -, copiandone (citandone) un pezzo (la parte
diciamo così "riproducibile") e sostituendone una parte: si tratta della
copia della foto della sedia di Kosuth, della fotocopia del pannello
della definizione di "sedia" (si presume sempre quella "di" Kosuth),
mentre la sedia reale viene sostituita - così si dice - con quella sulla
quale è stato fucilato il partigiano Vjekoslav Dukic il 5 gennaio 1941
(l'oggetto in effetti appare malconcio, con un pezzo mancante, come
colpito dai proiettili), evento di cui dalla semplice visione dell'opera non è dato sapere, se non sulla base di una informazione aggiuntiva,
completamente extratestuale rispetto all'opera stessa. In pratica una
didascalia, ovvero un'operazione linguistica che sta "fuori".
Qual è il significato di questa installazione? Potremmo avanzare delle ipotesi, che probabilmente stanno insieme:
a) una effettiva riscrittura di ciò che possiamo chiamare la trama del lavoro di Kosuth, sulla base di una sorta di insoddisfazione di Cvijanovic, forse nei confronti dell' anonimato dell'oggetto e delle sue rappresentazioni;
b) volontà di inserire un elemento semanticamente "altro", anzi storicamente diverso, meglio ancora, storicamente precedente, e in ogni caso portatore di una sua precisa identità, di una unicità che potremmo definire museale;
c) intenzione di indicare una sorta di preminenza della Storia, in
forza della quale (cioè in forza della perdita di anonimato) le
rappresentazioni dell'oggetto (veramente vero) appaiono
inutili, demotivate, superflue. Nota a margine: pare emergere un
carattere europeo, nel senso di incapacità di fare a meno della storia
che caratterizza il vecchio continente;
d) interruzione di fatto, intenzionale o meno, della ripetibilità,
virtuale o effettiva, dell'opera, non tanto quella di Kosuth quanto in
generale dell' idea dell'opera di quel tipo, proprio per effetto dell'unicità della
sedia di Cvijanovic. Nota a margine: serialità e autoreferenzialità
sono tratti caratteristici di molta arte concettuale (e poi della pop
art). Per Kosuth non solo sedie, ma anche lampade, martelli, poltrone,
badili da neve (ma non ci aveva già pensato Duchamp nel 1915?), orologi
(in questo caso cinque, diversamente oggettivati) e altro. Repetita
iuvant, verrebbe da dire soprattutto all'autore. Si presume infatti che
il fruitore dovrebbe aver capito il concetto alla prima. L'impressione
tuttavia è che non siano nemmeno repliche, ma piuttosto ricostruzioni dell'opera in luoghi/contesti diversi, quasi con quel che c'è
a disposizione. Ma quello della serialità è un altro problema, da
distinguere dalla riproducibilità, nel senso che aveva indicato Benjamin
nella sua opera del 1936 (nel caso di Cvijanovic la serialità è
ovviamente impossibile);
e) non escludendo inoltre l'intento di citazione parodistica, uno dei
caratteri più tipici del postmoderno, come avevo accennato prima.
Cvijanovic sembra voler dire a Kosuth: la realtà è questa, molto più
drammatica, molto meno generica. O anche: questa è una sedia, rovesciando l'assunto magrittiano;
f) infine, l'opera di Cvijanovic è un commento all'opera di Kosuth (v. sotto), un commento politico,
posto a chiosa di una intercambiabilità o una molteplicità
industrialistica che se vuole essere critica alla lunga finisce per
essere una riproposizione della stessa.
Forse l'ipotesi può essere complessivamente
riassunta come una ricostruzione del senso, o il suo tentativo di
ricondurlo fuori dal "dubbio". Ma quella di Cvijanovic è in fondo una
banalizzazione, al di là del forte riferimento storico, soprattutto
perchè pone una delle questioni (tra le altre) capitali, e cioè se il
nuovo è davvero nuovo (o forse dovremmo dire innovativo, cosa già
diversa). A me pare che qui la ricostruzione del senso si traduca in una
distruzione della metafora (o forse meglio della metonimia) e in ultima
analisi di quella del concetto. In questo senso l'opera appare
irrilevante da un punto di vista culturale, proprio in confronto a quella che la precede. Se l'opera d'arte può essere paragonata a quei discorsi che sono all'origine di un certo numero di atti nuovi, come potremmo dire con il M. Foucault de L'ordine del discorso, il
commento, che secondo il filosofo francese, riaprendo il discorso su un
certo testo "ha come unico ruolo, quali che siano le tecniche messe in
opera, di dire infine ciò che era silenziosamente articolato laggiù", qui non
genera di fatto un atto nuovo. Nel commento, aggiunge Foucault, "il
nuovo non è in ciò che è detto, ma nell'evento del suo ritorno". E' lì
che il confronto è perdente. [E' una riflessione aperta.] (g.c.)