Sabato, 2 luglio 2016
Antonio Pibiri - Chiaro di terra - L'Arcolaio, 2016
Nel precedente lavoro di Antonio Pibiri, Le matite di Henze (Lampi di stampa, 2015, v. QUI), avevo
brevemente accennato ad un suo utilizzo dell'indizio, di oggetti, luoghi e fatti da cui far derivare una soggettiva, uno sguardo ascendente o discendente
verso altri livelli, verso considerazioni, conclusioni, spesso non necessariamente correlati, come di un pensiero che vaga, che non procede tanto per
associazioni o metafore o idee che poi verbalizza, ma che talvolta lega l'espressione a un suggerimento che viene direttamente dal linguaggio e
dalla parola, da una intravista possibilità di percorrerli ad libitum, scegliendo di volta in volta ad ogni bivio. In questo Pibiri mostrava un
certo talento, nel riconoscere alla scrittura una capacità di "farsi", di trovare da sé strade inaspettate, e alla parola, a volte con qualche eccesso,
quella di svuotarsi di senso e riempirsi di suono o di un senso diverso e distante, se non di una particolare insensatezza.
In questo libro questo stile sembra riproporsi, tanto che Davide Zizza nella postfazione parla di kènosi, ovvero di "«svuotamento» della parola per
riproporla in un lucore slegato dalla pura referenzialità" ma con l'intenzione di superare le due categorie di sostanza e forma, a cui tradizionalmente un
poeta è legato, e di recuperare una "vibrazione sonora e tersa" dell'enunciato. In effetti al termine di una prima lettura di molti dei testi di Pibiri non
sempre si afferra immediatamente il senso o meglio la funzione per così dire narrativa (o fàtica) che essi hanno. Eppure, al di là di un certo innamoramento della parola che a volte emerge dai testi, bisogna poi almeno riconoscere una qualità impressionistica di questi testi, come se
l'utilizzo del linguaggio fosse più che altro rivolto a rendere le percezioni dello sguardo, le impressioni appunto, il valore iconico della realtà, non
tanto il suo senso, o il mero riflesso delle cose, ma una referenzialità altra e diversa. Non è certo un caso che nel libro si citino diversi
fotografi (Adams, Freed. Cornell Capa, Arbus) ma anche i pittori, il Doganiere o Henri Michaux ad es., ma anche la fotografia non è, non deve essere
necessariamente, immediatamente significativa o documentale, almeno da quando ha assunto valore di arte (lsi leggano Benjamin, Sontag, altri) uscendo dalla
registrazione sociologica. E non casuale il riferirsi alla luce, ai chiaroscuri, ai colori (anche rovesciandone l'apporto: "se nero su sangue è
coccinella"), alle penombre che avvolgono i corpi, alle linee che talvolta non solo danno una forma su cui sostare con lo sguardo ma anche diventano
direttrici dello sguardo stesso (v. come esempio Due studi sul corpo inclinato). In altre occasioni invece, dove necessaria, spunta una scrittura
orgogliosamente assertiva, come in Fragmentation, interessante assemblaggio di versi fatti quasi tutti di frasi compiute, una specie di décollage
alla Mimmo Rotella.
Al di là di queste brevi considerazioni, tuttavia poi a un'idea del mondo la poesia deve corrispondere, anche nel più ostico dei testi,
generalmente parlando. Una strada è seguire i riferimenti culturali (quelli fotografici e pittorici lo sono in relazione all'approccio descrittivo alla
realtà di Antonio), come ad esempio in Cos’è Antigone, cosa non lo è in cui la evocazione del personaggio sofocleo restituisce il senso a un
testo apparentemente inopinato fin nel finale ma carico di senso etico. L'idea del mondo (usiamo questo termine) di Pibiri è per certi versi sur-reale,
anche se in definitiva la sua è una poesia che viaggia quanto meno su due piani, uno che potremmo chiamare sensibile, in cui la realtà oggettuale è
centrale, in cui si afferma una vena lirico-elegiaca (v. ad es. Talismani, tonalismi - e l'accenno ad una tecnica pittorico/musicale ha anche
qui il suo senso) che parla delle ripercussioni dei fenomeni della realtà sulla esperienza del poeta; l'altro che potrebbe essere definito come ricerca
di una metafisica della parola, di una sua fluidità semantica, di quella "vibrazione" di cui parla Zizza, un suono, non necessariamente subito
assimilabile, che proviene dalle cose e dai fatti, ma che comunque punta a quella "altra faccia" che il titolo suggerisce. Una ricerca c'è ed è evidente, in questo libro senz'altro più unitario e maturo, ma è di quelle che
comportano una certa difficoltà e un notevole senso di responsabilità affinchè la parola non si svuoti troppo, precipitando in una kènosi acuta.
L'imperativo è, come scrive lo stesso Antonio, fare in modo "che la parola non sia foglia / a coprire il tuo sesso", non sia una foglia di fico, un
mascheramento, un'omissione, una reticenza del dire. (g. cerrai)
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Giovedì, 22 gennaio 2015
Antonio Pibiri - Le matite di Henze - Lampi di stampa, 2015
A volte non c'è un disegno nella poesia. C'è invece un'ispirazione, o un casus che
attraverso un percorso talvolta tortuoso (che, come diceva Flaiano, in
Italia è la linea più breve tra due punti, ma lui in verità parlava del ghirigoro)
arriva alla stesura di un testo, e qualche volta non ostante il suo
autore. Non è raro che tutto parta da una parola o da una incongruenza
verbale, che innesca un processo non del tutto cosciente. Può essere una
poesia degli oggetti, dello scorcio o, come ho scritto in altre
occasioni, di epifenomeni del mondo circostante, delle ombre della realtà, compresi certi dolori, veri o fantasma che siano.
La poesia di Pibiri parte spesso da elementi del genere, da accadimenti
semplici o semplici constatazioni, insomma da stimoli piccoli o grandi a
cui non si sottrae, cercando di includerli e talvolta di trasfigurarli
in un meccanismo poetante. Ci sono innumerevoli oggetti (alberelli di
pino, il cartone del latte, una sedia di legno, le uova sul tavolo, il
mare, il pane, pietre, conchiglie) che appaiono nel corpo del testo e vi
gettano la loro ombra come uno gnomone; o ci sono luoghi (un
appartamento, un terrazzo, una finestra, una stanza, un angolo in
penombra) che sono abitati o a volte subìti, non senza una qualche
ironia, e in cui talvolta la vita vive come in un acquario (più volte
citato); oppure ci sono persone, viste, incontrate, osservate o
ricordate, su cui ironizzare, come la pianista della poesia qui sotto, o
con cui fare qualche conto, tra rimpianto e presa di coscienza, come la
madre scomparsa o la figlia, una figlia materna a cui si racconta e da
cui ci si fa raccontare "la storia del mondo per darmi coraggio".
Tutti questi stimoli vanno ad alimentare nella stessa maniera la poesia
di Pibiri: una raccolta di indizi in cui la visione, l'occhio, ha una
parte rilevante, da spettatore, e che arrivano non necessariamente ad
una "verità", forse semmai ad una impressione di certezza, e
forse nemmeno del tutto ad una poetica del "dubbio", della moderna
inquietudine. Qui in realtà non c'è inquietudine o cognizione di una
complessità esistenziale, e forse nemmeno è necessario - certo - che ci
sia. C'è sì una serena, malinconica a volte, ironica correlazione tra
le cose, i fatti, le persone e il riflesso che essi gettano sulla vita
del poeta, ed è in relazione a questo che parlavo all'inizio di poesia
di epifenomeni, di ombre. Da questo punto di vista mi torna l'accenno a
un certo straniamento che fa nella postfazione Roberto Baghino, ma di
più quando dice, anche se forse non volendo dire, che "i suoi versi
intessono un tappeto che veramente noi osserviamo rovesciato". Ombre
proiettate su una platonica caverna? E non è un caso che la sezione che
preferisco, delle tre che compongono il libro, sia "Rompere il vetro",
in cui i temi hanno più respiro, più peso, la visione si allontana di
più da un orizzonte di piccole cose che non sempre assurgono ad epifania
o riescono a diventare uscite di sicurezza del pensiero dalla
quotidianità. C'è sempre in tutto il libro, a parte queste
considerazioni, una volontà di torcere la lingua poetica, di utilizzarne
le potenzialità, spesso molto bene. E anche se, nel tentativo di
scardinare il segreto che le parole custodiscono, qualche volta l'autore
eccede ("le dita molliscono nell’idrodinamica di un’acquasantiera"
oppure "E il cielo collirio irrigava, spenta / ogni sete, ogni collera
sulla congiuntiva, / per il bordo grondaia della palpebra") Pibiri sa
fare poesia, e i testi che ripropongo mi pare che lo dimostrino a
sufficienza. Infine un piccolo appunto: l'Isle-sur-la-Sourge, citata in un testo e nella postfazione, dovrebbe essere corretta in L'Isle-sur-la-Sorgue, città natale di René Char. (g.c.)
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