Alcuni testi tratti da Les champs magné
tiques,
l'opera scritta a quattro mani da André Breton e Philippe Soupault,
febbrilmente, a volte per otto o dieci ore al giorno, in circa otto
giorni tra il maggio e il giugno del 1919 e pubblicata l'anno seguente.
Appartengono alla parte "versificata" del libro, in gran parte composto
da brani in prosa, secondo una procedura di "scrittura automatica" che i
due avevano immaginato fin dal 1918, quando, ancora coscritti,
montavano la guardia di notte all'ospedale militare a cui erano
assegnati e passavano il tempo leggendo a vicenda a voce alta i Canti di Maldoror di Lautréamont/Ducasse, che sarà poi considerato come precursore del surrealismo.
Libro di rottura, sotto molti aspetti, di una
"gioventù sacrificata" uscita dalla guerra con non poco disorientamento.
"Giro per delle ore intorno al tavolo della mia camera d'albergo",
scrive Breton negli Entretiens, "cammino senza scopo per
Parigi, passo le serate da solo su una panchina della piazza dello
Chatelet", in una indifferenza a cui non erano estranei che pochi amici,
tra cui Soupault, a cui Breton riconosceva una certa "gratuità"
nell'esercizio del pensiero. "Tra tutti i miei amici di allora mi pareva
essere quello meno contaminato dalla preoccupazione di un rigore
apparente, del tutto inconciliabile con il rigore reale che avevo la
volontà di instaurare". Una volontà di rigore che era prima di tutto di
natura sperimentale, come nota Philippe Audoin nella prefazione
all'edizione Gallimard. Era l'idea di un tentativo, come scrive Breton
nel Manifesto, di "ottenere da me stesso (...) un monologo di
un flusso più rapido possibile, su cui lo spirito critico del soggetto
non consenta di portare alcun giudizio, che non si ingombri, di
conseguenza, di alcuna reticenza, e che sia il più esattamente
possibile, il pensiero parlato". E' ciò che Breton chiama poi la scrittura automatica,
una scoperta accolta con l'entusiasmo (scriverà Breton nel commento del
1930 al testo) "di chi ha appena portato alla luce un filone prezioso",
entusiasmo che tuttavia non impedisce agli stessi autori di notare (con
"qualche fastidio") come si ottengano da questa scrittura "osservazioni
di una grande portata ma che si coordineranno e giungeranno ad una
conclusione soltanto in seguito". E' forse il riconoscimento di un
limite e può darsi di una volatilità, però non del tutto inopportuni, se
(scrive ancora Breton nel commento) "gli autori sognavano, o almeno
fingevano di sognare, di scomparire senza lasciare tracce". Tuttavia Les champs
rimangono un testo fondamentale, pure laddove possano apparire ostici o
addirittura manierati, anche se solo si considera il periodo storico e
culturale, già ricco di fermenti a cominciare dall'eredità che avevano
lasciato Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud e Verlaine e con l'irruzione
sulla scena di Freud e della psicoanalisi a cui certo la scrittura
automatica si collega. Quello che gli autori cercano è infatti "un
prodotto grezzo, l'espressione immediata di una realtà almeno
psicologica, se non spirituale, che viene opposta agli artifici dei
facitori di versi, foss'anche di versi liberi" (Audoin), e in questo
certo c'è in parte anche il lavoro di Mallarmé sulla depurazione del
linguaggio dalla sua mera funzione strumentale e comunicativa. E' la
ricerca di una voce selvaggia capace di dire di una realtà nel sogno,
nell'assurdo, nello stesso linguaggio, in cui l'io stesso,
confrontandosi con qualcosa di più profondo, viene messo in discussione.
E' il surreale, o l'immaginario, o il meraviglioso, in definitiva,
secondo Breton, tutto "ciò che tende a diventare reale". (g.c.)
(Nell'illustrazione gli autori in due disegni di Francis Picabia (1920) - clicca sull'immagine per ingrandire)