Bisogna ad un certo punto buttarsi dietro alle spalle certe domande oziose del tipo: di che cosa parla la poesia? e come ne parla?, tralasciando ovviamente a maggior ragione il perchè. Bisogna procedere a quella che qualcuno, anche di recente, ha chiamato "una presa d'atto": - da parte del lettore, che la poesia supera e trascende le sue proprie norme, vere o presunte che siano, e si dispone ad indagare territori che possono anche stare in certe zone di confine tra i generi; - da parte dell'autore, che questi territori possono essere molteplici e diversificati (l'assunzione di consapevolezza di cui parla Cristina Babino nella prefazione al libro) e che comunque necessitano di chiavi di lettura specifiche e appunto un pò fuori norma (dice D'Urso: "ho cercato lo stile e le assonanze, / ho trovato un cane abbandonato per le ferie"). "Occidente express", presente qui con testi inediti in rete, è anche questo.
La poesia di D'Urso può essere iscritta tra quelle del "disincanto", se proprio si vuole. Mentre l'Oriente Express andava nella direzione del mito e della fantasia, l'Occidente Express di Andrea va a velocità folle nel senso della dissoluzione del mito (e quindi della speranza), e se c'è un ignoto in fondo a questa corsa, esso riguarda solo "quando" questo metaforico treno (o autobus, o metro) deraglierà. D'Urso ha scelto la sua parte di realtà da descrivere, quella familiare e tuttavia inquietante di un esterno urbano quotidianamente percorso, un non luogo che solo un pò di toponomastica differenzia da mille altre grandi città. Qui si svolge il flusso ininterrotto, un "rude stream" che però ha molto poco di eroico, di un'umanità disparata di "comparse" che non fa più nemmeno massa, o classe, o cultura, perchè semplicemente vive un ciclo dentro/fuori che non è nemmeno più di ricostituzione della forza lavoro, ma di consunzione o riduzione al minimo dei bisogni (leggasi qui "Marx ti aiuta lo sai..."). In questo poema picaresco ad episodi (di cui il poeta stesso è un personaggio), fatto di occasioni ma per niente minimale, D'Urso si aggira e annota, usando spesso un'ironia tagliente che produce forse aforismi, come dice Babino, ma raggiunge anche epifanie, piccole rivelazioni, come quella di capire che "nella vita non serve un senso, ma un movente". Ecco, è questa realtà (tanto magmatica quanto fredda, appunto disincantata, per la quale giustamente si rinuncia ad adottare una forma, ma si canta "as it is", così com'è) a suggerire lo stile, la norma: impossibile innestare su questa materia il linguaggio poetico connotativo e polisemico più tradizionale, la necessità è di descrivere, "raccontare" senza tanti fronzoli o soggezioni al verso, a volte magari con qualche ridondanza o qualche piccola ricerca d'effetto, a volta con interessanti soluzioni narrative, costruendo grandi metafore per accumulazione, raggiungendo il lettore senza mediazioni. Poichè questa realtà a cui poter applicare una propria griglia di riferimento è potenzialmente infinita, per uno meno coinvolto il rischio semmai potrebbe essere di fare antropologia, o un'osservazione entomologica con poca pietas. Ma non è il caso di Andrea D'Urso.
da "Occidente express"