Giovedì, 15 novembre 2012
Enrico De Lea, di cui ho parlato in un paio di altre occasioni qui su
IE, mi manda questo smilzo fascicoletto edito dall'Associazione
culturale "La luna" (2011), di cui è direttore letterario Eugenio De
Signoribus. Dieci brevi testi in tutto, una "sequenza poetica", come ama
chiamarla l'autore. Un termine ormai consueto nella poesia
contemporanea, che anch'io in altre occasioni ho adottato, che sta a
significare la rinuncia al poemetto, ad un'unitarietà che ormai non è di
questo tempo frammentato, e insieme la volontà di aggrapparsi ad un
filo di senso (o tòpico) che attraversa il nostro sentire e il nostro
scrivere e in qualche modo quei frammenti riconnette.
Dice De Lea, dimostrando una perfetta consapevolezza del suo lavoro:
"Sono testi - aventi come prestiti/pretesti fisici la costa e
l’entroterra dell’area ionica prossima allo Stretto di Messina - con cui
si tentano, forse da una distanza, profili di progressivi avvistamenti
ed avvicinamenti ad una terra-luce, attraverso una parola arcuata tra
passo collinare, bracciata e marea raggiunta o fuggita, un ossessivo,
costante identificarsi coi luoghi resi luce e con la luce resa lingua e
materia amata, una mitografla ctonia e naturale, in cui insiste anche la
storia personale e collettiva". Per altra via Enrico poi mi parla di
"fantasia di avvicinamento ai "luoghi" ".
Mi è sempre piaciuta questa idea di avvicinamento, perchè da una parte
suggerisce curiosità ed esplorazione, dall'altra implica un destino,
quello cioè - come nel paradosso dell'eleate Zenone - di un
raggiungimento della meta mai definitivo. Tòpos quindi per me potente, a
maggior ragione se lo si accosta al "luogo" (tòpos per eccellenza),
area (non necessariamente fisica) in cui l'uomo si riconosce e forse si
radica per sempre, costruendo quindi la sua propria "religio".
Il radicamento mi sembra una delle costanti di De Lea, anche senza
arrivare alla "ossessione" a cui egli stesso accenna. Ne avevo già
parlato, mi sembra, a proposito di altri suoi lavori (v. QUI),
in particolare "Ruderi del Tauro", in cui - dicevo - c'è (a livello
conscio e inconscio) una vera mitologia delle radici, dove tra l'altro
il linguaggio ha un ruolo particolare, legando e insieme tenendo a bada
le cose. Va da sé che ad ogni radicamento (od ossessione) corrisponde
uno spaesamento, un luogo anche mentale in cui si "sta" ma non si "è",
un luogo che si cassa accuratamente dalla propria poesia e forse dalla
propria biografia perchè la felicità è "laggiù" e "a quel tempo". E da
questo punto di vista la poesia di De Lea, se posso azzardare, è
decisamente antimoderna o se volete felicemente strapaesana.
Ma qui c'è anche uno sguardo "doppio", sia nel senso di cattura e resa
della "luce", sia del suo essere nel contempo esterno e interiorizzato,
nonchè diacronico, poiché la distanza geografica o quella dislocazione che
segnalavo in "Ruderi" spostano l'esperienza nel tempo e agiscono
potentemente sul nostos e sul mito. Al doppio occhio, quello fisico e
quello non solo memoriale e "distante" ma che (anche) rielabora in
soggettiva, bastano lacerti di realtà o vaghe suggestioni percettive per
imbastire un quadro solidamente intramato con il linguaggio. Un occhio
che non disvela frammenti di concretezza o li usa come correlativi
oggettivi, ma che semmai ingemma quei frammenti in un pensiero o appunto
in una nost-algia, che alla fine non è di De Lea ma è universale poichè
il lavoro di "fasciatura" nel linguaggio degli elementi ispirativi è
così accurato che l'io, in questi testi, si eclissa del tutto.
II.
Serba memoria d'alba, camminate tra lo spino e un rintocco calcareo, salvezza sconosciuta dalle serpi. Ritrova una salvezza altra, di radura, la morte subitanea dei vigneti, con la finzione divenuta vita.
III.
Una frase anch'essa calcarea, al suo spaccarsi a un fuoco di fornace, rende una crepa al cielo, troppo vicino da escludersi. Colmo di ogni ramo, esausto, che qui s'innalza, collo come di bestia antica incattivita, resta, sul vetro alle finestre, vapore di erbe cotte della selva.
X.
Nell'ordinanza e dominio dei colori, concede eredità, rinunce agli avi, ai successori, s'apre ai muti cori mattinieri del vallone, millesima i dolori. Il bastione delle soste meridiane lo conserva nelle tracce della cava a monte e dell'altra, ignota. Calcare ed arenaria sui portali, fissa antri smussati, sbrecciati, polvere senza peso come il secolo.
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