Giovedì, 17 maggio 2012
Un'opera prima, anche questa di Diego Conticello, di cui IE ha già pubblicato la bella nota su Lucio Piccolo (v. QUI), autore a cui Diego ha dedicato gran parte dei suoi studi.
Nella
sua breve prefazione, Silvio Ramat pone l'accento su un paio di
evidenze, riguardo a questo libro: l'una riguarda la sintassi poetica
novecentesca (e direi ermetica, come ammette lo stesso autore), cioè per
così dire di un canone rivisitato; l'altra la deformazione del lessico,
il neologismo, a cui l'autore ricorre spessissimo, e forse con una
certa compiacenza. All'incontro delle due, dice Ramat, si crea un
tensione, un vortice in cui le parole si sciolgono "dalla
semi-automatica sistemazione e neutralizzazione entro i codici dei
significati correnti". Ovvero, mi par di capire, è la messa in opera di
una azione di "poetizzazione" di una lingua "comune", altrimenti poco
connotativa o almeno usurata, ma comunque parte dell'identità del poeta.
D'accordo, ci sono tendenze sempre presenti nella poesia italiana, in
relazione al linguaggio, che vanno in direzioni opposte, e Conticello
adotta una di esse, l'innesto di nuovi elementi lessicali. di linguaggi
quotidiani o tecnici o spuri (e nel suo caso anche dialettali) in un
tessuto sostanzialmente tradizionale, seppure "sformato", cioè con una
versificazione del tutto libera.
Ma
aggiungerei qualche altra considerazione, a partire da quelle di Ramat.
Una riguarda un "effetto", per così dire, prospettico. Proprio questo
intersecarsi di piani (uno che potremmo definire verticale, quello della
sintassi novecentesca, l'altro orizzontale della serpeggiante
inquietudine nervosa del lessico) suggerisce, nei testi migliori, un
paesaggio a tratti metafisico, ove elementi perturbanti aprono uno
sguardo, attraverso architetture note, su uno scorcio di "realtà" che
sta dietro le cose. Come, parecchio alla lontana, in un quadro di De
Chirico. Forse l'intenzione non è proprio quella, se Conticello avverte
che la sua ossessione, prioritariamente, sta nel "ricercare originalità
nella parola stessa, dato che ormai in poesia è stato detto tutto".
Tralasciamo il fatto che, se questa ultima affermazione fosse vera, la
poesia sarebbe morta da un pezzo o sarebbe solo estenuante ricerca di
nuove forme di quel "già detto", o l'originalità trovata non
esprimerebbe niente di esprimibile. Ma resta il fatto (positivo) che al
di là delle dichiarazioni di poetica (sempre rischiose e sempre per
molti versi reticenti) negli esiti migliori si realizza poi di fatto un
equilibrio tra mezzi e fini, si raggiunge un ascolto di sé, delle
proprie motivazioni affettive e morali, anche al di là di certi
assiepamenti di (neo)parole o di aggettivi. Per altro, aggiungerei,
compressi - come logica conseguenza di questo lavoro di "riduzione"
della parola - in testi per lo più brevi, quasi una condensazione
(proprio nel senso freudiano del termine) ove elementi diversi magari
anche inconsci riescono a manifestare "una accelerazione del cuore"
(Ramat). E' la condensazione che non sta nel vocabolo "costruito", ma
quella che lo stesso Conticello riconosce nella sedimentazione antica del
dialetto, come nel momento in cui, in "Rreschi amari", lo mette davvero in musica.
Certo qualche riflessione su alcuni punti critici Diego deve averla
fatta. Perchè se il libro presenta discontinuità (immagino che raccolga
testi scritti in tempi e situazioni diverse), qualche ingenuità e
qualche eccesso verbale anche troppo "barocco", gli inediti che è
possibile leggere QUI costituiscono una innegabile maturazione, una maggiore consapevolezza, come ho già scritto, nel rapporto tra realtà e pensiero, tra osservazione e riflessione, ma anche della parola come mezzo ancora "rispettabile", come strumento che ancora offre, se lo si interroga adeguatamente e adeguatamente si controlla, delle grandi opportunità. (g.c.)
Diego Conticello- Barocco amorale - Lietocolle 2010
Silenzio
Taci se non hai mai
scritto d’amore,
un ridace silenzio
nega d’aver rivisto
le labbra sulfuree
della tua donna
o le sue mani
uncinarti
nella respirata
smorfia di un abbraccio.
Vivi a muta disforia
se non hai detto.
Obliquo oltremare
Ah, l’obliquo
socchiuso
delle tue palpebre
nell’oltremare
di notti di marzo,
ha già seguito
le linee del volto
che disgrega
(perdendo e ritrovando)
se doni.
Lasciati i paraventi
Non mi ha cercato
stanotte
transito d’oscurità incosciente,
così t’ho meditata
ora – lasciati
i paraventi –
(solo di fronte
alla vita)
è voglia
d’abbandono,
oblìo in te.
Naturali ossimori
Il bosso tagliato
con esattezza,
l’ibisco non sbocciato
è indole
del mio tempo,
mentre erompe
– sottomessa –
altezza della foglia
di platano,
una spiga
annerata sull’onda,
soffioni di pioppo
nel vento.
*
Quando pioggia scroscia
irruente
alle imposte semichiuse
e forse vuole ancora perciare
quell’ultima lastra
impercettibile
con saette che hanno suono
di schiocco,
t’avvedi che sferza incurante
gracilità d’un petalo,
scava
– con costanze
inattese – stridenti abitudini
di giornate troppo quiete.
Se potesse
spogliare
questa terra
da ogni inganno…
*
Ho invidia di lucertole
sui muri scorticati,
verso il sole,
che rade si muovono
attendendo
miracolo che riveli
l’assoluto.
Ad ogni pagina
un nuovo cruccio
s’addensa:
la parola
svelerà
almeno un lembo
d’incompreso?
E forse
non ne ho invidia
quando raro
muovo quel prodigio
che trapela,
ma non spoglia
l’infinito.
Perenne liquidare
Signato da
perenne liquidare
lastricato non balza,
ma scroscia
creste assonnate
e non sai dove smetta,
se in smalto di gora lacustre
o a strapiombo
in ridosso
su lo stecco
(liscia serba
ogni roccia che assaggia).
Fiato
è un rivitare
alla foglia che ricade,
che discende,
al passo su travi interrate
spruzza il tavolato vivo…
pace
sull’orlo
d’una sera.
Il vento, la spina
Questo vento
oscuro
mi ha preso
alle spalle,
scintillare
di spina
ormai sferrata.
Ho abbandonato
le mie unghie
nella carne,
traversando
dighe cucite
sull’insofferenza.
Puntofobia
Chiama una lampada
accesa
a sondare
la linfa dei morti,
altro non avete
molestia da acedia.
Se avessi
metrìe impercepite
da ragno
attuerei
calcolate
uccisioni.
Rreschi amari
Scuro,
isolitario,
accugnato
fra malati muri
a vanelle vive
crepolati.
Nu vientu lascu
- annuttatu-
m’accarizza,
allintannu
comu l’abbutuliari
di ‘na vuci.
Sbattuta di lanterna
e di friscu accaluratu
chi trasi ‘nte ngunagghia,
affossa sincopando
quei gravemi,
‘ddi rreschi amari
chi s’assuppunu ‘u sapuri
livannucci
‘u piaciri.
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