Venerdì, 2 aprile 2010
Dopo un paio di post "pensosi" torniamo alla poesia. Domenico Ingenito, autore delle traduzioni di Forough Farrokhzad pubblicate qualche tempo fa (v. qui) e anche "poeta giovane e ad un passo dal fallimento" (parole sue, napoletanamente scaramantiche), mi manda un suo cospicuo canzoniere inedito. Ne ho tratto alcuni testi che mi sembravano interessanti, a cominciare dal primo, Lisbòna - Tehràn, un testo teatrale o corale, se vogliamo, che andrebbe bene recitato a più voci, essendo costruito su un impasto linguistico, una contaminazione del dire dell'amore che corre sull'ideale medesimo parallelo che congiunge le due città, una precisa angolazione del sole, un doppio o triplo orizzonte, fascinazione, antipodi erotici e un rovesciamento, come le stagioni, della propria identità culturale. In questo testo e negli altri (sono questi a mio avviso i punti più rilevanti di questo canzoniere) c'è anche qualcosa che il lettore nostrano deve capire, una mistica sottesa molto orientale o, al limite, una specie di metempsicosi linguistica, una reincarnazione, in un giovane occidentale studioso di letteratura persiana, di una parola distante e setosa. Se la stragrande maggioranza dei giovani poeti usciti dalle università italiane ha il problema primario di scrollarsi di dosso la pesante eredità novecentesca, Domenico deve invece fare conti con una cultura altra e affascinante di cui appare fortemente innamorato. Al suo meglio possibile quando ci si immerge, se però si depurano i testi da questa fascinazione, come in altri casi, si ritorna a un lirismo di cui Domenico potrebbe rinvenire esempi più consoni alla sua personale esperienza dalle nostre parti. Sta qui la zona di confine di cui lui dovrà tenere conto.
Lisbòna - TehrànLo sai, potrò coglierti in qualche modo, mai completo, io in questa lingua eppure fortificato, inteiro nello spaccarsi, tra l’altra lingua che le mani mie atravessa e questo petto che strane cose dar bamdàd per te canta al mattino. Costruirò in te la patria del cuore che impazzito si traduce fra i due estremi dei continenti rovesciàti, midunì, dèlam asìre lo sai, prigioniero è il mio cuore con grazia no sossego dos beijos, vou sentir a tua falta sentir la tua mancanza nella pace dei baci asheghané mibinàmet amorosamente ti sguardo. Ho una grammatica di sentimenti da insegnarti purché tu conosca il margine che dos azuis mais cheios encarna-se minh’alma dei più pieni azzurri mi s’incarna l’anima di possederci sempre sul confine estremo con chi parla del sussurro la notte con la voce spezzata dall’argento dove mazra’é-ye sabz-e falàk dìdam-o das-e màh-e now vidi i campi verdi del cielo e la falce della luna nuova. Come dirti ancora violentemente che la casa non è altro che torcia: irrompe nel cuore tra altopiani e valli di papaveri bruciati dal sole dei tuoi baci. Sì, anseio o sabor da tua saliva na minha bocca ardente desidero il sapore nella mia bocca della tua saliva Ma non preoccuparti zàr-o sim rà khahàm feshànd bar del-e faghìr-e durtarìn zaminhà è l’oro e l’argento che spargerò sul povero cuore delle terre più lontane Sfigurare allora l’oggetto che mi offri nella lingua più bella trasmutare il nome in quest’altra costa pienamente azzurra e restituirla ai villaggi perduti riscrivermi così in te nelle mille parole che pur ti riconosco inventare o pronunciare s g r a z i a t a m e n t e quello che n o i, come sai, non apparteniamo a esta ilha no meio do campo quest’isola in mezzo al campo, siamo forse una Triste Razza Cantante spezzata fra le terre che dentro ci abitano, ey sàrv-e siminbàr o cipresso dal petto d’argento ascolta come si scuote il cuore quando nella frattura ti estraggo come più puro rubino delle tue labbra accese di parole non ancora inventate eppure già sfavilla l’ora di volerti nos braços desta janela luminosa nelle braccia di questa luminosa finestra dar mehmanì-ye aftàb, zìr-e roshana’ì-ye setaregàn-e abiràng. nella festa del sole, sotto il fulgore di azzurre stelle Sì, aré, sim, verrò a cercarti, dar talàbet, à tua procura, per apprendere con te, ba to, aprender, teneramente lontani, dur-o latif-o longe la nostalgia, (ghorbàt-o saudad-o sowdà?) di quell’ altopiano tra le piazze e le strade, as ruas e as meydanhà di una città bella, a cidade-e zibà bianca tra le colline, branca dar myan-e teppehà, di silenzio sokùt perco-me em ti dove in te mi perdo.
Radice
L’abbiamo chiuso troppo presto, amore il libro dei giorni, le pagine vere delle stagioni e delle mille cose che adesso - raggianti di maggio - aprono al cielo. Ho una foglia per dentro che mi trema nell’aria di sentire un po’ di mare, dove invece nella fossa tua il sangue fermenta per spingere a vita la ragione dei campi. Là dov’era la fede di stringerti la bocca e sperare che mai più si aprisse nell’addio alla mia stanza (tua figlia miele negli occhi, piangeva e non vedeva) sei rimasta in silenzio. E a volte ritorni come rosa d’inverno a spianarmi la strada in quelle mille e mille altre forme che solo adesso mi cominciano addosso, e dalle tue ossa una polvere amara che non tiene perfora la terra, e ci racconta di quel delta dove solo il tempo della notte accarezza la vita felice delle radici.
Il Taglio
Mi soffoca la voce di dirti ancora - benché tu tremi come verde cristallo all’accendersi di ogni parola - che mi manca il posto per averti in fondo al petto degli anni che verranno. Questa figura strana della memoria m’assedia di casa in casa la notte, come quasi venirti a cercare e dirti che incostante soffia il vento dall’isola fuori costa. Pallida esperienza questa d’amarti di due amori, dove una mano mi taglia e una mano al fondo dell’acqua mi stringe.
Per toccarci meglio
Meraviglioso era forse tutto questo quando al mondo pochi ancora erano gli oggetti, e con grazia potevo confonderti con il loro silenzio e lì unirti all’acqua, unirti all’albero, unirti al fuoco. Dicono che ogni tanto sia possibile la morte nonostante questa dura fatica di restare in punta di piedi sul crocevia del vento. Eppure, ascoltami, non è mai terribile il febbraio che t’innalza e porta via verso le braccia del sole, ritorna allora da me un po’ albero, un po’ acqua, e un po’ fuoco per toccarci meglio e con più gusto schiena a schiena mangiare alla tavola amara di questa memoria.
Fra vent’anni
Non mi spaventano più queste strane cose d’inverno. Adesso che d’un fiato per intero la vedo la notte, dovevamo cantarla forse più all’alba questa canzone ormai giunta al suo termine, non nel mezzogiorno invaso dalla luce che né io né tu siamo in grado di guardare con fermezza e misura appassionata. Cosa posso dirti, ormai, presto mi calerà la febbre nella sera del nord, e riprenderò a perdermi in questa troppa troppa vita in fondo agli occhi. Potrò ancora a lungo dare al vento il fervore del mio corpo quando già fra venti o trent’anni poco a poco traverserò il limite delle cose da toccare, per farsi più pura materia del pensiero e di parola? Ma lo sai, non sarà mai terribile, in fondo, la gelida notte con queste mani che lente perdono i sensi.
(da Delle occasioni amorose, inedito - Notizie dell'Autore qui)
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