Ci veniamo incontro sui ponti, la sera,
quando scende la nebbia,
per non riconoscerci
ci scambiamo parole,
sorsi di vino caldo
e auguri per il nuovo anno
"ma questi uomini bisbigliano,
parlano lingue oscure,
sconosciute, io non riesco
più a capirli"
e tu mi dici
"non importa,
i fuochi son finiti
e domani torniamo tutti
da dove siam venuti
a meno che quest’acqua
che adesso sembra ferma
di colpo non si alzi,
finalmente,
per toglierci
il respiro"
A una ragazza che dorme sul treno
Adesso dormi,
impigliata nella ragnatela
dei tuoi incubi feriali
che ti spezzano la schiena
e subito ti si gonfia
in bocca una bolla
di saliva che ti solleva
dentro lo stomaco caldo
di un intercity.
Cedi, allora, cedi,
alla tua natura metamorfica
e volatile,
sii per me insetto,
artropode, mosca,
screziato grumo
di pensieri vuoti
e ronzio di fondo
non lasciare che ti inchiodi
al tuo destino endoscheletrico
di studentessa fuori-sede
l'ipnosi del movimento
senza senso
e perpetuo
del pendolo
Dici che dovrei sentirmi meglio
sotto queste luci
che non scaldano la notte.
Esposti al fuoco
calpestiamo il cuore dell'insediamento,
l'incrocio tra cardo e decumano,
il centro esatto del bersaglio.
Non mi consola
sapere che questa sera, qui,
noi siamo il sale della terra,
il sale gettato sulla ferita,
sul taglio nel tessuto
che spacca l'asfalto
non bastano le parole
a ricucirlo.
Perciò ti prego,
portami via, via,
portami a vedere
la mia città
Guidando di notte nella bassa padana
Benedetto sei tu, che penetri
con lo sguardo gli abissi
Daniele 3, 52
Il nulla non è la pianura
perché il nulla non si misura
in leghe nautiche e angoli di rotta
e quel brillare lontano non è un faro,
è un animale,
perché due sono le luci, due occhi
di cetaceo, o di gambero
in fuga sulla statale
dentro un mare di nebbia
nelle notti d’inverno
ho seguito i suoi fanali
ma poi mi sono perso
per le aree dismesse
delle zone industriali
tra container, piovre,
cisterne vuote
negli abissi dove i sonar
non possono raggiungermi
a occhi chiusi
sono caduto
nel gelido abbraccio
dei mostri marini
La prima pioggia d'agosto,
un coltello nella schiena
a fine stagione se ne andavano tutti,
tornavano nelle loro città
violente di pianura
ci lasciavano qui
a parlare delle cose ultime,
quando il buio cala
come un colpo d'ascia
nel primo pomeriggio
e dopo cena ci contavamo le ossa,
i capelli, le macchie della pelle,
misuravamo le distanze
tra gli occhi, tra i denti
per trovare somiglianze,
relazioni, nuove
parentele
sperando che fosse almeno il sangue
a tenerci vicini
nelle notti d'inverno
Precipitiamo
nei cambi di stagione,
negli sbalzi di temperatura
la bassa pressione
ci deforma le ossa,
le assottiglia
fino a renderle cave
il male si insinua in ogni fessura.
Percorriamo a ritroso
l'evoluzione della specie,
diventiamo ingombranti
e scontrosi
come uccelli preistorici.
Finiremo
nei modi più vergognosi,
caduti sotto i colpi di sonno
dopo mangiato
abbattuti dalle correnti d'aria,
dagli spifferi, dai gelidi soffi
ad un cuore che sbatte
come una finestra lasciata aperta
in una notte di tempesta
Questo spazio può essere nostro
È qui che dovremmo vivere,
nascosti
tra le gradazioni del verde
qui dove le case cadono
a pezzi, i cani ringhiano
prima dei temporali
e i gatti si gettano dai tetti
con un tonfo che ci sveglia
nel cuore della notte.
Nei fine settimana
cancelliamo i nomi di tutte le vie
per inventarci una vita diversa,
e poter fingere di incontrarci
per caso ad ogni svolta,
ogni incrocio
come gente appena tornata
da chissà quale paese,
gente che non si vedeva
da anni,
che chiede come stanno
anche i parenti più
lontani
Un inverno in pianura
Se ne sono andati,
tutti.
Ogni notte la stessa notizia:
una guerra appena finita,
o appena iniziata
e adesso c'è la neve
sulle rive del canale,
la nebbia entra nelle sale buie
dei ristoranti chiusi,
gli animali attraversano la strada.
Forse è questo il respiro delle campagne,
la voce sommessa della tua terra
l'ultrasuono
che io non riuscivo
neanche a percepire
Via della Torre 15
Si perde il conto degli anni
in questo luogo
di case azzurre e piscine
che riflettono una luce accecante,
che confonde la mente
si dice vent'anni come dire
niente, fingendo di non sapere
che intanto la mia casa è stata venduta
due volte, e adesso ci vive un ragazzo
che non conosco.
Dentro hanno fatto un corridoio,
al posto della sala c'è una camera
e il bagno è diventato una cucina,
tanto che adesso
“se ci entri non ti orienti”
così dice la Brigida,
la portinaia con la voce stridula
la stessa di vent'anni fa,
dice che hanno
modernato, che è cambiato un po' tutto,
ma lei si ricorda bene
di me, di mia madre, della cugina
che lavorava alla Scala.
Nel quartiere c'è silenzio,
sono scomparsi molti palazzi,
a volte si aprono squarci
su un cielo che non ti aspetti.
Non sembra la periferia di Milano,
sembra una città senza bambini
travolta da una guerra di cui nessuno
ha avuto notizia
e io mi sento addosso la vergogna
del disertore
Ripropongo anche "Porte de Vanves", la poesia con cui Cornali ha vinto il "Poesiafestival" di Modena, nella quale Francesco Marotta ha giustamente notato chiari segni di una maturità poetica non trascurabile.
Nei quartieri dormitori non si dorme
si esce sui balconi, si sta fuori tutta notte
a guardare oltre le cliniche
ecomostri e costellazioni
a cercare Cassiopea, le Pleiadi, il ricciolo
di Berenice
nessuno ci convince
che sono vecchie storie, che le luci del centro
cancellano il cielo
a me basta un metro
cubo d’aria purissima
e 30 gocce di valeriana, a me
basta la musica
dei camion bielorussi
fermi alla dogana
per capire che la mia
è periferia, terra di frontiera
dove solo chi parte
s’incontra per le scale,
nessuno ritorna
e chi rimane
non riesce a dormire.
Altre poesie di Agostino Cornali qui.
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