Sabato, 17 luglio 2010
ANTRACITE
Fabbriche e treni perdono lucore, invecchiano, sbiadiscono col tempo, sconfinano nel bigio della nebbia. L'antracite perdura, abbasso, nera, fragile, dura, riflessi di metallo, terra chiusa e remota a lumi spenti. Ne intendo i segni, i cippi calcinati del confine, l'ala del fossile confitta sulla costa le mani rattrappite dei compagni naufraghi morti nel golfo senza mare. Può darsi avvenga domani un altro rogo non l'aperta l'allegra combustione che macchia l'aria di fumo e d'amaranto, la soffocante perdita dell'anima noi incastrati nell'ombra.
Penso alla pioggia, alla cenere, al silenzio che l'uragano lascia amalgamati nella vergine lapide di melma dove drappelli d'uomini e di bestie verranno ancora a imprimere un transito nel mondo, all'alba ignari sul nero cuore del mondo.
AL QUINTO PIANO
Era marmo per poveri né costoso né candido a lastre sovrapposte, rampe, gradini. Poi la casa, celle sospese ad un ultimo piano. Nome, numero, strada, città, l'ascensore portò giorno per giorno notizie di nera consistenza, carta-garza, rinforzo di catrame, sigillate di rosso, ceralacca sulle cose dell'anima, silenzio. «È ciò che amo, ne stivo finché posso con orgoglio e saggezza, con follia, con tenera fiducia. » A volte cambia il giro delle cose, l'attesa contempla anche un nonnulla lungamente chiamato, costruito pezzo per pezzo, atomo perfetto che sconvolga stemperi scolori il catrame impietrito dell'inferno. Intanto Sedici e Venti - verdi tranvai - stipavano a bordo il bene e il male sferragliando al traghetto d'una parte del mondo o dell'inferno.
QUALCOSA DI PRECISO
Con un forte profilo, secco, bello, scattante, qualcosa di preciso fatto d'acciaio o d'altro che abbia fredde luci. E là, sul filo della macchina, l'oltraggio d'una minima stella rugginosa che più corrode e corrompe più s'oscura. Un punto da chiarire, sangue d'uomo, briciola vile oppure grumo perenne, blocco di coraggio.
APERTURA D'ALI
E l'apertura d'ali? Essa varia; ve n'è di micron, di centimetri, di metri. Dipende dal modello, dalla materia, dalla forza motrice; il motivo, la quota da raggiungere. Ripiegate, richiuse, accantonate sotto un serto verdissimo, nell'Eden pasto a tarme felici; oppure sottoghiaccio coi relitti, ossa regali, mammut, mosche spente in fondo all'ombra del tempo. Camminammo più a lungo che potemmo, spesso vedemmo, alto nella memoria, doloroso, un bianco stormo di brandelli... (appena un gioco, un aiuto, una finzione se sulla scena del deserto il fuoco s'apprende alla pelle delle prede se il gelo aggruma nomi disumani). Un battito d'ali su per le vaste pareti della memoria non ci sottrae all'ombre che ci seguono; la iena, il lupo, gli angeli abietti dall'obliquo incedere.
DELLE PENE
Alla prova dei fatti non ci fu di che essere allegri: torti, errori, viltà, debolezze del cuore, insanie che inquinarono la mente. Pagammo in disparte nascondendo le voci, l'ammontare, i conti d'impossibile chiusura. Vorremmo un'era forte, aperta, precisa, di pubblica chiarezza per le pene. Non più pagare mediante equivalenze, con conguagli privati, silenziosi, ma tormenti, tenaglie squillanti maschera gogna ruota rogo. Visibile a tutta la città la corda che ci tira per il collo.
poesie tratte da Mosche del meriggio, Milano 1958 e L'osso, l'anima, Milano 1964
su Bartolo Cattafi un interessante saggio di Giuseppe Panella qui
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Tracciato: Gen 15, 23:24