MI PIACE LAVORARE
Mi piace lavorare, ehm... sì certo che mi piace lavorare, anzi si può dire,
io dico, che non ho fatto altro nella vita, sai quando s'intende che hai
cominciato a diciott'anni... eh sì, giù di lì, in quell'età della vita in
cui gli altri vanno solo a ballare, in giro a divertirsi, pomiciare.
Invece, eccoti qui: con la divisa da maestra. Con trenta bambini piccoli da
accudire, istruire, intanto fioccano le riunioni, gli extra, non hai più
tempo per vivere per studiare, allora che fai, ecco: abbandoni
l'università, anzi fai finta che è inevitabile che lo fai da convinta, e
per anni, chi ti ha più visto agli esami?
Poi continui con gli impegni, ti dici, ma mica deve cambiare del tutto la
mia vita solo perché lavoro, no.
E prosegui imperterrita: viaggi, hai il tuo amore a Napoli, bene è durato
sette anni, hai le riunioni politiche a Milano, magari leggere, riposanti,
come in via Dogana, no? Ci vai e basta, non importa se il fiato ti manca,
sia perché si fumano ancora le vecchie Pack, sia perché il giorno dopo,
anziché riprenderti dal boccheggiare, prendi la cuccetta notturna per
Napoli, e via!
Poi, l'università la occhieggi sempre, sai che lì vicino c'è Bologna, con i
suoi giri universitari strani, però ci vai, le amicizie tenti di
allacciarne, ma solo il sabato e la domenica. Poi pensi che quella domanda
di borsa di studio per Parigi, perché non dovresti farla: per laurearti hai
dovuto cadere per davvero, ingessarti, sempre vero, avere l'onore dunque
delle aspettative per salute, e per potere infilarti dieci mesi a letto, e
scrivere scrivere, studiare.
Intanto che lui di là, da Napoli, aspetta che tu lavori sempre, ma
pazienza, tu lo sai fare bene: appena puoi torni al lavoro. Poi le cose fra
te e lui iniziano a girare sempre peggio, in breve dopo i sette anni vi
siete lasciati, allora tu cosa fai?
Riprendi il treno dei compiti e scadenze, te ne dai sempre di nuove, così
ti tieni attiva, lontana dai serpenti che sparlano di te, e fai finta di
crederle avvincenti, ti ci butti, studi per vincere il concorso direttivo,
oramai la china paterna è di seguire - te l'hanno imposto senza tu lo
cercassi - le sue orme. E lo fai, ingoiando il mugugno, intanto la leader
storica del movimento femminile non ti chiede più perché non vieni a
trovarmi, che potrei insegnarti come vincere la borsa di studio a Ginevra.
Però a Milano ci vai, non prima di avere fondato la casa editrice nuova,
con la nuova amica e lì pubblichi, anzi fai pubblicare; per primo il
fidanzato, così non sbagli a sentirti a pari con la coscienza, che tanto
sai che tu conti sempre molto dopo gli altri, poi le scelte più serie,
ragionate: pubblicare Rosselli, Vicinelli, eccetera. Ma poi infine te ne
vai davvero a Milano, se Dio vuole, perché il concorso l'hai vinto davvero
e sei fuori dalle scatole della famiglia, che c'ha messo trent'anni a
demonizzarti convincendoti che ne aveva una totalità di ragioni a trovarti
una strega, e bruciarti ogni volta ti rivedeva.
Ci vai, lo vinci, trovi casa, vicino alla Ripa Ticinese, in affìtto, anzi
affittacamere, da un signore siculo che ti spia in camicia da notte la
mattina, quando fai la colazione, prima di andare a fare, per l'ultimo
anno, la maestrina, e poi la direttrice, ma lì i tuoi si sono finalmente
decisi a farti acquistare la casa, sennò c'era quell'uomo di mezzo.
Allora nella casa nuova, e tua, con un uomo giusto al fianco, con l'analisi
a lato, e con le amiche che scrivono, oppure con te sola, eccoti qui
finalmente a iniziare la tua storia; di vita di donna, nuova, e tua.
Che insegna, dirige, scrive, organizza ma soprattutto che può anche e
finalmente scrivere.
L'autorizzazione a vivere, a essere quella che volevi.
Il lavoro diventano i lavori, tanti, a milioni, ma a te piace moltiplicare
le responsabilità, organizzare creare: eventi soprattutto, relazioni, farli
parlare con te, ad alta voce, fra di loro, i poeti, gli intellettuali;
farsi e farli amare, scontrarsi, pensare, contraddirsi.
Tutto questo ti accende di pensieri nuovi, e ti stanca anche infinitamente.
Poi, cominciano a entrare in relazione nella tua vita anche loro, le donne
tue somiglianti: eccole là, spuntare come menadi prima del movimento, poi
le donne in poesia italiane, come sorelle ginestre, ginecei ambulanti.
Una invenzione pura.
Nessuna meno di una artista desidera confrontare la propria sempre discussa
grandezza con le altre, ma tu lo fai, ci credi, te lo imponi, lo fai
credere alle altre.
Sai lo sguardo che affida, valorizza la solenne confusione tra questione
femminile e lavoro poetico? Bene questo pasticcio sublime ti intrica,
appassiona, fa sognare e fa correre la mente in quanto aura, atmosfera,
rivendicazione dopo una negritudine, rifonda etica, è scum!
Ti fa nascere parole, idee. Ti insegnerà confini.
Anche se è una tra altre, metafora di altre sintesi viventi, di altri
destini che si sono incrociati in quel pugno di anni italiani, mani che si
toccano sodali, voglia di rompere amnesie. Sole corrente, contro la
corrente.
Poi, furono gli anni dell'onnipotenza a fare da padroni: ideare,
organizzare e curare festival nazionali, chi te lo fece fare? Ma perché ti
piaceva da morire, era coniugare il sogno al sogno, la tua vita al fare,
creare relazioni anche letterarie nuove, o ti illudevi.
A partire da te, da dove ti eri trovata a nascere, da quale fianco della
vita.
Però, ti dici, è rischioso: sono tante grandezze sovraesposte, non si
rischia di confonderle?
Ma è per eccesso del silenzio che le precede, forse. In un universale vero,
fianco a fianco sarebbero stati sempre uomini e donne, artiste con artisti.
Ma storceranno il naso diranno, è ghetto, è offensivo. Pretendono,
dipendono, ti reclamano poi si eclissano, preferiscono la cosa
tradizionale, dove c'è autorizzazione normativa, realtà istituzionale, ti
sono però devote poi oppositive, poi tradiscono; si sentono, loro, di
tradire qualcosa che ha a che vedere con l'ordine costituito, il proprio
nome e posto riconosciuto, dato. Ma si divertono anche, e te lo dicono
scrivono, corrono al pensiero della successiva antologia e invito, se lo
prendono e come, quello spazio a lato, quell'antefatto mai goduto. Delle
singole e delle estranee, come le chiamava la Woolf.
Le analisi non mancano, anche se non disegnano una mappa critica
soddisfacente, ma non la volevi, ne avevi parlato anche con Porta, niente
"alternativa" all'universo letterario, semmai alla parte mancante muta, il pathos che sostiene, le idee corali di gruppo; sei sempre tu però
a tenerle a mente, non ti fanno lavorare in gruppo anche perché c'è fuga,
già paura, diaspora.
E sul lavoro-lavoro?
Perdi la voce, la serenità, ti attaccano dentro e fuori la scuola, sei
andata al Costanzo, non dovevi, esibire il tuo status di
operatrice donna sola, intellettuale che ama lavorare per la libertà, non
renderne conto, (non sei efficiente e non ti aggiorni sul mestiere — che
non ti era mai piaciuto - di burocrate, perché non vi eri nata), allora,
che fai? Ti dimetti dal ruolo direttivo, nessuno ti aiuta a trovare fughe
in posti più rilassanti di comando ad esempio, fuori dalla "medina"
permanente. Ti mancano le conoscenze, le raccomandazioni.
Sogni, incauta, di metterti in proprio, sola e calma, a scrivere. Da sola,
in casa. Già. Prima che inventino le figure del freelance.
Come in un racconto della Bachmann, dove la donna che rifiuta il codice di
prestazione si fa sorprendere semiaddormentata a letto, ma emergendo da
continuo sonno si finge in lucido tempismo, di condurre affari "come se"
fosse all'esterno, nella realtà, per strada, in ufficio, o sotto la pioggia
camminando, telefona al suo uomo, impersona la vita normale.
Non volevi soltanto ribellarti però: dopo aver assaporato il letto
accidioso, vuoi davvero tuffarti nel regno dei freelance, nel
campo della scrittura creativa per farne un lavoro vero. Dall'anno del
prepensionamento, ti butti nella disperata ricerca di inventare, di
trovare, allora; e per tre anni si moltiplicano, fioriscono scuole, corsi,
seminari dove insegni, dove torni e insegni ancora, poi rilanci: sempre a
leggere e scrivere poesia, piuttosto che l'italiano scritto.
Ai futuri laureandi ti lasciano condurre corsi istituzionali.
A volte ti pare sia davvero prestigioso, come fossi una normalmente
inserita, e non una fuggitiva, un'irregolare, come sei.
E ti lagni, come di ostracismo generazionale, del fatto che non hai più un
posto fisso, non l'hai più voluto, ma lo hai pure snobbato ignorando la
legge che, di ogni ambiente, fa una catena di servitù concrete, se appena
esci dal suo giro, ne esci. Così col posto fisso, con le relazioni non
coltivate prima, anche perché la famiglia, a furia di anatemi, non ti ha
insegnato affatto la pazienza, e l'ambizione del perseguire un lavoro
voluto, che ti soddisfa, tuo.
Al bando eri, e dal bando tu scappavi, circumnavigavi, al massimo
trasgredivi, ti credevi libera.
Ad esempio non ti consentono più, dopo che sei andata in pensione, di
curare quelle belle dispense sull'insegnamento della poesia per la scuola
dell'obbligo, che per anni ti avevano appassionato, le avevi create tu. Gli
ultimi poeti presentati, alla Fabbri, per i più piccoli della scuola, erano
stati Vittorio Sereni ed Antonio Porta.
Poi, la parte più bella viene, quando ti inventi mestieri nuovi,
meticciati: come conciliare la retorica o gli incipit e topos della prosa occidentale ai futuri copy, come
insegnare a ingegneri, anziani, studenti, donne, le peculiarità dello
scrivere in poesia e in prosa.
Inventi corsi e te li fai pagare, la domanda pareggia l'offerta.
Circolano idee, sono gli anni Ottanta e Novanta, iniziali.
A volte pullulano le offerte di lavoro, a volte inesistono.
Per mesi non riesci a tirare il fiato, le ore del giorno e delle settimane
non ti bastano a respirare, oppure il contrario, vivi in accidia e
paranoia, perché nessuno più ti chiama.
Hai soltanto brevi scorci notturni o ritagli sui metro, per scrivere, però.
La vita irregolare la danneggia, la incalza con disgrazie, occasioni,
raptus. Di nascosto, di fretta sotto dettatura, nascondi lo scritto fra
quarte di copertina e biglietti di metro; la mattina lo ritrovi tra le
pagine di libri e quaderni: le parole, che saltellano come raganelle e non
sai come imbrigliarle.
Le fai aspettare. Tasti gli estremi. Ti fermi, pensi di oggettivare.
Oppure pensi che ti eleggeranno amica, in benevolenza a quel vento nuovo,
se ti arriva quel vento nuovo, oggi ne era entrato dalla finestra una
brezza, hai provato a fermarlo con le mani.
Si è posato, come un passerotto invernale. Ti diceva coseleggere e care.
Come ti avrebbe avvertita, sai stare alla perfezione così, ore ed ore, ne
sei condotta dal cerchio di parole. Poi, a sera, altre persone entrano, e
sbattono le porte, portano parole cattive e cattivi pensieri, le tensioni
il cerchio inutile e malvagio del litigio, maledicente cronico.
I bambini invece hanno un buon odore. E si ricaricano con un nulla. Ti
baciano e ti stringono le mani. Ti ispirano la vita, la motivano dal nulla.
Oggi, una mattina come le altre. Mi alzo e prendo il solito caffè, stavolta
al ginseng.
Sara è già a scuola, ci è andata col suo papi. Ha dieci anni, quasi, fa la
quarta ancora.
In pigiama resterò a lungo perché nessuno, pochi, mi telefonano per nuovi
lavori.
Eccoti nella Milano del precariato e dei non luoghi a rimuginare inutili
sogni; se in Emilia tu staresti meglio, è chiaro che ci stai assai meglio,
ma per vivere soltanto, cioè aspirare luoghi chiese bellezza e natura viva,
e curve collinari che non vedi perché nessuno ti accompagna, ma allora ne
scrivi, ti fa ricordare, respirare, passeggiare, nel mondo case come radici
sostenere, tua madre intanto è morta, però, sette anni prima, e tua figlia
era ancora treenne. Ma era da una vita che la ricostruivi, ora ce l'hai
dentro in pace, ti ci è entrata, e riposa.
E il padre l'osso ottuso ancora, che rimane a testimone del divieto a
essere amata, a essere accettata in santa pace. (Mai avuto!), forse non ti
puoi illudere che con tutto farai pace, anche se ne avresti un gran
bisogno, se ne avresti!
Ma a metà mattina ecco i planning del giorno prima, del mese
prima, inevasi. E le telefonate e l'invio stampa, perché l'hai scordato,
perché lo rimandi, cosa fanno quei libri buttati da (anni, mesi?) sotto al
letto, solo perché non vuoi (puoi?) rispondere, e quei testi ammassati,
pronti sì, lo dici tu, né editing né revisione, fuffa di polvere di cacca
di gatto che piagnucola in cucina, ma al telefono ci vai pimpante,
suadente, la cadenza si fa fresca emiliana, o lombarda, ma sorridi o
annuisci, speri, chiedi e non trovi o cerchi, aspetti ascolti, taci e
rimbomba, c'è un tale traffico lì sotto, perché la lamentela cresce
allarmante, non ce la fai più a dormire, a sedare, a staccare neanche
all'alba, neppure con le colazioni con latte e biscottini e sedativi:
all'inizio dici be', solo dieci gocce, ma dopo un'ora non le sai più, hai
bisogno di spegnere gli interruttori e il rumore là fuori sbatte, motorette
e ragazzini con gli orari happy hour ormai perenni da precari
della fame, ma tutti trendy, tutti per bene e noiosissimi,
eleganti che se la tirano, solo perché lavorano o ci aspirano, ne parlano,
ma era così Milano un tempo quando ci arrivasti, no, che non lo era:
brutalizzata la legge economica che impera e detta una sola legge: «Mangia
o muori, venditi e bene, sei, siete un esercito di giovani variegati
schiavi di questo mondo, mondo che è solo del lavoro» come il giovane
Carletto Marx aveva raccontato, mondo di merci balordamente sì, qua sotto
casa mia, solo anoressiche top modelle e top manager ingurgitano gli happy hour del mezzodì, di notte l'happy hour è serale,
ma sarà la stessa sbobba di spaghetti scotti e polpettine di cane, mah, chi
sa com'è fatta la gente di oggi. Siamo mutati, eccome, eccoti lì alla
finestra a riconciliarti il sonno, perché non se ne cura lui, ma neanche tu
ti curi anzi, col vizio di curare tutti eccoti qui a rammendo, a freelance, a tedium vitae, a scartabellare appuntamenti,
ma quelli medici e di analisti prevalgono ancora troppo, è di lavoro vero
che vorresti vivere.
Quello retribuito, come piaceva al nostro mix errabondo popolo erratico ed
ebreo, non è così, ogni giorno lavorare allontana la morte, il tedio e i
cattivi pensieri, ora basta.
Aspetta di riordinare meglio gli armadi, le librerie, che tanto non lo
farai. Da sola, hai detto, non ce la fai.
Ma sola sei — sempre, anzi più che mai quando ritornano a casa i familiari,
allora gridano o corrono, pretendono e tu sei tra il nervoso e inebetito,
vorresti anche tu l'attenzione, ma la voce che esce è stridula, poco
credibile; ridono vedendoti col maglione a rovescio e l'aria inochita, ma
forse ti stanno chiedendo se hai preso quelle brutte pillole per dormire.
La casa, la figlia, i mestieri, il telefono, la scrittura parcheggiata lì
sotto, fra la fuffa, arrivare come l'armata a cavallo, fare capolino, tu
sorridi, tieni i due cordless in mano.
Alla sera stai zitta però, hai la testa vuota, un ronzio al cervello, ti
appresti a fuggire di nuovo, nasconderti, non ti trovano così, nessuno mai.
Solo a notte ti premi sotto al cuore dove pulsa, dove non tace, dove
brilla. Ma è stanchezza o è euforia, è angoscia che cosa è che ti fa
sentire l'operaia della casa miniera dove custodisci, nascondi, menti,
tradisci, taci, ti torci le dita perché in nessun posto vorresti essere
tranne lì, non ci vorresti ma potresti, le tue idee si accavallano,
confondono e chiudono, ti mancano.
Scappare, lo so. Le donne che non mettevano la testa nel forno volavano
dentro ai fiumi all'alba, o si lasciavano appendere come palloncini dopo
avere scritto gli ultimi versi col carbone, come sogni. E là, da quei
balconi, dove appesi calavano i vivi, le loro parole come da palcoscenico,
come dal suo teatro, ecco la soccorritrice notte, avvistarsi silenziosa, psst, psst, a zampette di gatto, passerotti passetti passeggiare
dentro al cranio leggeri e innocui, leggeri e innocui, "i sogni, i
sempreverdi".
All'indomani del Venerdì di Passione prese il coraggio, si cambiò, uscì,
comprò un tailleurino nuovo, inforcò gli occhiali, si decise: doveva
lavorare. Seriamente e fisso, così la figlia, i problemi forse per un po'
si fermano. Allora, il planning, cercalo, poi riciclarsi,
progettarsi, collocare.
Mi piace lavorare? Sì mi piace, mi piace.