Lunedì, 29 maggio 2017
Paolo Valesio - Il servo rosso / The red servant (Poesie scelte
1979-2002), con trad. in inglese di Michael Palma e Graziella Sidoli -
Ed. Format Puntoacapo, 2016
Non ho una particolare predilezione per le antologie, comprese quelle
tematiche. Forse perché sono selezioni di selezioni - una cosa che a mio
avviso non ha altrettanto pregio dei superlativi assoluti ebraici (tipo il
santo dei santi, per intenderci) - tanto più se la selezione è opera dello
stesso autore, una autoantologia insomma. Che da una parte può certo
aiutare il lettore, fornendo un fil rouge anche filologico o
interpretativo (e in questo caso copre oltre venti anni di attività), dall'altra chiude l'opera, come potremmo dire travisando un
pochino il pensiero di Eco, Barthes e compagnia bella (cosa a cui mi pare
alluda anche Gian Maria Annovi in una delle note al libro). Nel senso
almeno che il lavoro passa attraverso la distillazione, in primis, del
senso estetico ed autocritico dell'autore. Che fa il punto della situazione
e contemporaneamente - soprattutto se il libro è di una particolare
compattezza tematica come questo - pone la tesi e l'ipotesi dimostrativa,
l'espressione e la dichiarazione di un amor che ha attraversato
quasi senza sosta il pensiero, l'atteggiamento etico, la vita dell'autore.
E che attraversa questo libro.
Un amor che si sostanzia, al livello più evidente, in una
manifestazione - anzi una professione - di fede, in un dialogo con una
presenza trascendente e ubiqua, latente ed evocata, che permea l'urbe e la
natura, e che è il Dio che si può nominare (e si nomina), non quello che si
manifesta inannunciato in una qualche epifania di cui la poesia possa
registrare la meraviglia, è il Dio che popola le preghiere, quello
ricercato con la volontà della parola e con una continuità che richiama
alla mente un esicasmo (qualcosa che assomiglia a una novena o a un
rosario) però inquieto, non pacificante. Una lunga prece, attraverso le
raccolte qui rappresentate, a cui la poesia dà forma e veste, anzi diciamo
meglio, dà una forma pubblica e per ciò stesso non intima, poiché
pregna sia di una volontà di rappresentazione artistica sia di una
testimonianza morale; e insieme privata, non solo per i pensieri che
esprime ma anche, in molte occasioni, per la privatezza del
linguaggio, l'invenzione e l'uso e riuso delle parole, la selezione operata
nel vasto bagaglio culturale dell'autore e la loro dispositio, per
dirla in termini ciceroniani. Ed anche per un certo mettersi in
discussione, a nudo, ad esempio scegliendo di riflettere su momenti critici
della propria vita.
Scelta non facile, in questi tempi in cui non si può parlare di vera agnosi
e forse nemmeno di vera laicità e il relativismo è alibi ancorché vuoto.
Scelta che certo può risultare straniante e forse un tanto escludente, col
suo ricorso ad una speculazione (usiamo per un attimo questo termine)
poetica di questo tipo e tono, di questa qualità di scrittura che mi pare
collocarsi (però altamente sublimandoli) fuori dalla storia e dal tempo
(figurarsi poi dal cosiddetto mainstream), tonalità e scrittura
che però forse assicurano al lettore una giusta distanza "classica" dalla
difficile materia che è chiamato a condividere, risuonando esse a volte come in
una chiesa barocca a volte in una cella claustrale.
E' naturale che quella dell'autore non sia una mera meditazione sul
metafisico o sul trascendentale. C'è innanzitutto in questi versi una forte
coscienza della centralità dell'uomo, dell'essere, della sua capacità di
articolare qui e ora un verbo autonomo, che non proviene da un Ente, ma che
è espressione di una intima umanissima natura, tanto che a volte il dio e
l'io si confondono ("orante io superorale", dice Annovi), una aferesi che rimanda direttamente a una "immagine e somiglianza"
che, a pensarci bene, è insieme nucleo centrale della fede e pesante
lascito e responsabilità per l'uomo. Meditazione sull'evento e la sua
offerta a (o corrispondenza con) Dio, rispecchiamento nel divino o
viceversa in quanto di divino contiene la vita, anche allorquando l'uomo
riscontrasse una sua solitudine, una sua orfanezza da Dio medesimo. Anche
allora, anche in quel dolore, mi pare dicano questi versi, rimarrebbe forse
dubbiosa o incerta ma intatta la coscienza, l'intelletto (e forse
l'orgoglio) dell'uomo di sé, dei suoi limiti ma anche delle proprie forze,
anche nella dialettica costante con l'Altro, o con la propria anima, il
proprio "servo rosso".
Anche la preghiera, se vogliamo, è un'invenzione dell'uomo, la creazione di
un medium, di un linguaggio, di un canale di comunicazione (o comunione), di un sollievo. Invenzione non solo nel senso storico evangelico,
ricordando che il Cristo ne ha insegnata e lasciata in legato una soltanto
- e ricordando anche (tornando sui binomi pubblico/privato,
preghiera/poesia) quel che dice Matteo (6.5-8): "quando preghi, entra nella
tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto" (un
discorso, appunto, di privatezza che la poesia non può né deve
riconoscere); ma anche come artifizio retorico (sia detto senza nessuna
connotazione negativa), esattamente come la poesia stessa, nel suo
istituirsi come "voce" o canto che racchiude in sé la sua bellezza o il suo
fine.
E la preghiera, nella necessità ancestrale dell'uomo, è anche comunicazione
univoca, a cui non segue risposta, o ne segue per vie e manifestazioni
ellittiche o forse non immediatamente percepibili. Ma Valesio, come tutti i
credenti, non ha ragione di porsi il problema, la domanda viene formulata,
o solo suggerita, e magari non è nemmeno una vera domanda ma una
invocazione gettata in aria, ed è questo il senso della sezione del libro
intitolata "Volano in cento (Poesie 1999-2001)", cento "dardi" scagliati
verso l'alto, giaculatorie (di cui "dardo" è calco etimologico) con le
quali l'invocazione si libra e che in sé esauriscono la loro funzione, si
conchiudono come una dossologia, poiché "Se non mi dai risposta questo è il
segno / che mi stai ascoltando". E' l'essenza della fede. Nessuna pretesa
né sicurezza di riscontro, la preghiera (e anche la poesia, tutto sommato)
non è "la formula che mondi possa aprirti": non lo è con certezza, e forse
non lo è nemmeno per Valesio. Ma io credo che nel "contrasto" tra poesia e
preghiera, nella sospensione del tempo che la preghiera assicura, nella
sublimazione e annegamento mistico dentro la poesia e nella
riformulazione della preghiera in quella, nel suo fondo, Valesio cerchi una
sua personale sintesi. Una sua gnosi. (g.cerrai)
da IL DIALOGO DEL FALCO E DELL’AVVOLTOIO (1987)
Alla figlia della sua giovinezza
Vedi, è quando io sono da solo che siamo, noi due, insieme – no, non nel senso del trucco dialettico o giuoco diabolistico dei contrari. Quando io mi ritrovo da solo, ma veramente solo, che vuol dire: solo di fronte a un rischio, e sopra tutto in faccia all’ incrinatura fessa, della follìa – della scalmana, vittima della mattana che mi astrae in concretezza eccessiva di capelli sudati sulla fronte è in quel momento che io non sono più figlio-creatura, non più animale debole che possa venire in traccia d’un suo genitore per rifugiarsi, per succhiare aiuto; è solamente, dunque, in quel momento quando io non sono più figlio che io posso pensare a cominciare.
da AVVENTURE DELL’UOMO E DEL FIGLIO (1996) La nona giornata della Novena di Santa Teresa di Lisieux
Ieri notte gli è sembrato di stare ritto in piedi ad essi rivolto, e di dire: « O sorelle e fratelli dell’acquario – in questa chiesa grande di Saint Mary che (lo ha detto un parroco invidioso) ‘ha le pretese di una cattedrale’– lo sentite anche voi che l’aria del mattino è come acqua filtrata dall’ampie vetrate ricamate di piombo e di colori? Nàutili dello spirito o palombari condannati, galleggiamo sospesi (non c’è nessuno con cui verificare la realtà). Siamo pochi a quest’ora – una ventina – ed ognuno di noi ha un lungo banco tutto per sé. Al momento del segno della pace non ci serriamo le mani, ma ci salutiamo da lungi leviamo leggera la destra con un gesto che nasce da un certo qual languore e sonnolenza ma che finisce con il diventare solenne. Non siamo affamigliati insieme non scorrono tra noi fili di amicizia o rivoli di sangue. Siamo soltanto un piccolo popolo dentro a un cuore. A ogni alba parliamo con qualcuno che mai risponde (così che in certi momenti ora l’una ora l’altro di noi si sente stupido e bruto) ma che pure non cessa di ascoltarci. E questa sua perfetta equidistanza questa indifferenza stupenda come la superficie di un gioiello abbraccia l’universo e valica al di là dell’universo. Così, faccia a faccia con l’equanime forza che ci schiaccia, quanto ci può aiutare questa santa che parla di rose? Sotto l’ombra gettata dalla croce patibolare le rose incominciano a tremare. Il tremito dei fiori ci contagia; in silenzio ognuno tra di noi chiede soccorso per la sua povera anima crudele» .
da ANNIVERSARI (1999) Il servo rosso
Stamattina ha cavato fuori l’anima. Era prima del sole (se non si desta nel vibrar del buio perde il suo appuntamento con l’alba). Ha affondato pian piano la mano dentro la gola per alcuni minuti: dolore (gli sembrava di mordersi la gola con i suoi stessi denti), e ha posato il minuscolo uomo rosso come lacca (era unto di sangue) sul tavolo; l’ha ripulito, quasi fosse cornice d’argento, con un lembo di pelle di camoscio. Al momento di riporlo, le mani hanno un poco tremato: se non avesse più trovato il posto?
25 gennaio 1995 da PIAZZA DELLE PREGHIERE MASSACRATE (1999)
Sperso
Quello-in-croce che lei gli ha regalato (di ottone rosso: un torbido antiquario l’ha venduto con mani un po’ tremanti) e che sta appeso al vertice, al triangolo del soffitto di legno: lui si sente incitato, nel silenzio, a rivolgersi ad esso e quasi corre in camera e si piega giù ai piedi del letto. È l’ora blu-morente del crepuscolo, e già la cosa non si vede più la parete è soltanto una macchia di buio che calmo s’addensa – un colpo di pennello dietro l’altro – e lui resta insicuro che ci sia veramente, quel patibolo piccolo lassù. La tentazione
Forse passai la vita respirando, giornata dopo giornata, gli odori di un’alba non mia. Viene sopra di me la tentazione della disperazione: io e la vita mia, mai ci siamo incontrati. Ma poi penso: queste albe, qualcuno le ha mandate; queste albe, qualcuno le deve accogliere.
da VOLANO IN CENTO (2002) Dardo 7: Contra Platonem
(Simposio, 203b)
Se Eros nasce dalle furtive nozze di Povertà e Ingegno in giardino quale mai dio scugnizzo e fosco (dio-demone della mia vita) nasce dal congiugnimento del Silenzio e la nuda dei boschi, la Nulla? Dardo 9: Contra Lucretium
Con gemiti, la natura genera senza voce la preghiera: i cespugli e gli alberi qui fuori sudano trasudano (contagiando l’interno della stanza dove il legno ha profumo di selvatico come un’ascella) dopo la pioggia. Dardo 19
Io prego e non comprendo che cosa sia preghiera. Polimorfa richiesta indifesa per cui pregare vuol dire vincere la vergogna che si annida in ogni petizione? O è afferrare la corda che salva, la monistica supplica di unione?
Dardo 65
Nei rari momenti (ad esempio nello specchio abbrumato di un motel) in cui lo sguardo declina verso il corpo in sua povertà (defoliato dagli anni) e nudità intorcigliato intorno all’indifeso oscuro pene contro il pallore del ventre dunque in disperata purità là dove la miseria escludendo vergogna è la modesta via maestra verso la dignità – ecco io allora scorgo il corpo di Gesù. Dardo 78: Phoné
O mio tesoro ardente e oscuro: sei la fotografia spietata come tutte (ma maggiormente incide la spietà là dove il suo oggetto è più vitale) dei solchi brutti nell’anima mia. Io la vorrei più bella, questa anima, perché tu scintillassi di tutte le più belle sonorità.
“Teatro del Fontanone”, Roma Dardo 86
L’unico modo, a questa altezza di vita, per riconciliarsi con la notte: l’estenuazione – dentro cui scavare una nicchia o covile come un letto di foglie dentro un bosco. Dardo 96: Autunno
Per Graziella Sidoli
Arriva un momento non già di freddo, ma di lucentezza: tutti i fiori son morti ma sono morti bene il mondo è come un rotolo di seta o una grande scultura di ceramica; i castelli più veri non son quelli degli alberi cùprei sull’altra sponda del lago bensì i loro riflessi dentro l’acqua.
da OGNI MERIGGIO PUÒ ARRESTARE IL MONDO - TRENTA SONETTI 1987–2000 Figuraltra
Assai rado mi miro nello specchio per schermire bruciante delusione: che non è quella di vedermi vecchio ma quella di non scorger la visione,
dentro il vetro, del vólto del Rabbino (prima di trasformarsi in Giardiniere) solcato dal dolore e: ora acclino, ora vòlto a un superno Belvedere.
La faccia che mi affronta nel miraglio rivela una vita ammorbidente. Dunque, di fronte a Lui sono uno sbaglio?
No. Perché, se mi tuffo nel mio interno e dico « Uomo », sento in me presente la figura del Giovane eterno.
Brooklyn-New Haven, 16-18 aprile 2000 Le labbra
Labbra nude: ecco quello che rammento. Tagliavano il mio volto, od altri visi? Poco importa. La vita è un corrivento ed è finito il tempo dei narcisi.
Solo il silenzio fa accompagnamento a questa estate priva di sorrisi in cui mi addentro (e provo smarrimento) nel ricordo dei falsi paradisi.
Quando sto soccombendo alla vendetta del passato, e al suo peso suicidario, risorge entro di me la benedetta
frenesia del presente, a cui soggetta è la storia e il suo sforzo extra-ordinario. Labbra chiuse: io resto di vedetta. Ritratto in concerto
Per Alfredo de Palchi
O vïolina in fondo all’emiciclo (nastro viola e capelli color tè), il tuo viso è di quelli che Cosmè Tura incideva agli orli del suo ciclo.
Il muro alle tue spalle è trasparente: dietro il fiocco ch’è in tinta dei tuoi occhi cadono i fiocchi estenüatamente della neve (l’inverno è agli sbocchi).
Impazientita verso la sottana tu ti sfoderi in pantaloni neri. Il tuo viso d’argilla padana
è ombrato sotto gli zigomi seri. È l’ombra dove io cerco quella tana da cui nasce la mia vita emiliana.
“Filarmonici di Bologna” (Aula Absidale di Santa Lucia) L’antico amante
“Quant l’aura doussa s’amarzis” Cercamon
Quando la dolce aura s’inamara dicono che è l’inizio dell’inverno. Chi sa? Più non conosci le stagioni ma soltanto le ossa e il loro gelo.
Quando un umano esulta e s’innamora può scendere il sentiero dell’inferno; o esaltarsi più in alto dei cicloni svelandosi a se stessa, e al rosso zelo.
Quando più tardi scivola il momento degli anni pesanti e il braccio è stanco al risvegliarsi, come un’ala infranta,
prega che non vi sia un cedimento ma invece un abbandono ardente e bianco, nutrimento di voce che canta. Venerdì Santo
Qual è la prospettiva della Croce? Lento strisciare a un termine lontano giocando a fare da assistente al boia (portiamo in spalla quello che ci uccide).
Qual è la prospettiva dalla Croce? È un volo poco alto, non sovrano che plana sopra il mondo senza gioia (traversando il non-tempo che gli arride).
Ecco perché il mondo oggi è promosso a creazione, per qualche momento. Chi oggi discenda alla città dal colle,
trova il selciato silenzioso, e molle di rugiada; ogni passo è fondo e lento, la nuda vita è stretta al legno e all’osso.
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