Due poemetti di Bernard Noël, tradotti da me, tratti da La peau et les mots - Flammarion 1972, nei quali il tema principale è il corpo, dominante anche nella sua opera più nota in Italia, Extraits du corps (1958, trad. italiana di Donatelle Bisutti 2001), in relazione al linguaggio e a quel concetto, elaborato dallo stesso autore, di sensure (omofono di censure), privazione di senso della parola (comprensione, estensione, significato), uno snaturamento a causa dell'abuso della lingua, una "inflazione verbale che rovina la comunicazione all'interno di una collettività, e di conseguenza la censura", di cui il potere è il primo artefice e responsabile. La parola (e il linguaggio poetico) è qui ridotta alla significazione essenziale, anche quando deve riferirsi a situazioni e dinamiche complesse come l'amore o l'eros, o alla più cruda fisicità, finanche scatologica, del corpo.
Bernard Noël è presente su questo blog in altri post (v. QUI), a cui rimando per una maggiore comprensione dell'autore e del suo pensiero anche teorico, insieme all'interessante articolo di Viviane Ciampi su Fili d'aquilone (v. QUI). - (g.cerrai)
contro-morte
25/29 settembre 1954
io
che scavo sotto la mia pelle ogni giorno
io non ho sete
di verità né felicità né di nome
ma della sorgente di questa sete
io non porto in giro il mio piccolo demone ben educato
ne ho diecimila che mi rodono
e io sorrido loro
non come una Gioconda
non come un budda distante e soddisfatto
non come uno yogi dall'anima allenata con cura
ma come un uomo
per cui nessuna strada è quella buona
e
man mano che lo scavo là sotto si ingrandisce
strane macchine m'appaiono nel corpo
e dapprima questo occhio che è spuntato alla base del naso e
che mi fa dubitare del valore dei miei occhi
condensazione dello sguardo
triangolo all'interno del mio cranio
triangolo senza base come un imbuto dove precipitano
le grida venute dal midollo spinale e dal ventre
(dal ventre da cui emerge un enorme fascio
di radici flessibili e dure come
aghi d'acciaio)
triangolo dove pareti incandescenti tracciano nel
cervello una ustione che prosciuga
una ustione che è la presenza stessa
la presenza delle cose che entrano in me come una
discarica
una discarica che spezza le squame
spezza la paglia e la trave
spezza il filtro e i denti
bisognerebbe dire come
dire la visione chiara di quest'occhio
che non ha tenerezza, compassione né cinismo
ma che è vuoto
e inesorabile
come una nuvola di api sopra il baratro
la presenza si avvicina
zampe di miele
tepida dolcezza
e
subito
mille punture di freccia
nessun' altra uscita che il salto
ma
IL VUOTO SOSTIENE
gli occhi guardano attraverso il solo occhio
e nella densità di mezzodì
le cose mi entrano nel corpo
lo spazio si avvolge
dentro è immenso
allora
tentazione di organizzare subito la conquista
e di goderne
sorge il sole sotto le spalle
ho un'anima
capisco
e la coscienza si crede l'essere
ecco il regno dello strumento
allora
la grazia caca nel cervello
e la convessità del corpo
tocca quella del cielo
e io dormo
come un dio tornato alla gola del padre
bisogna dire
no a no e no a no no
bisogna riattraversare la pelle e vuotare fuori tutto questo
dentro
bisogna piantare gli occhi sul fianco rosso dello scorticato
e leccare il collo delle sue vertebre
e precipitare in questo buco
e sguazzare nel suo ventre
e cagliare il suo sperma
bisogna forarsi gli occhi per bere lo sguardo
degli antenati
e la distanza tra la fine e il principio
con un gran lappare di gengive molli
bisogna suo malgrado
malgrado i libri e il dolore
malgrado la pietra nera dell'occulto e gli alfabeti
della divinazione
e la ruga della simmetria
e il senso unico del cuore
IO SONO BENCHE' IO PENSI
e che mi guardi pensare
obbligandomi a cacarmi da me nella merda
del mio pensiero
invece di irraggiare
immobile
al pari del sole
come lo spazio si spande nell'universo tutto intero
così il tempo tutto intero si distende
e dall'uno all'altro circola una gravità
analoga a quella che estrae dalla mia carne
il mio pensiero
secondo un ingranaggio mai detto
benché la sola cosa sia da dire
che silenzio
che sguardo
in questo momento del riflusso quando la vita lascia a secco l'osso
della struttura, e la scia dei nervi
in questo momento quando l'intuizione si desta malgrado la tempesta
dei gesti e del sapere
in questo momento del fondo dove la carne lascia apparire
le vecchie tracce in fondo a cui stilla il sorriso
che fabbricò gli dei
e la coscienza
fra i denti morti degli antenati
non è più che il coltello di pietra per fare a pezzi
l'apparenza
allora
l'occhio
avvita
lentamente
il suo sguardo
nel cervello
e il dolore al rallentatore fora
e separa
tanto e così bene che traspare il circuito
tra materia e non materia
il vecchio ingranaggio
tra il me che tiene la carne aperta
e l'io che se ne è nutrito
allora
luce
bianca
dappertutto
come se la carne fosse raschiata da sotto
come se una ad una
ogni cellula fosse portata al bianco dal fuoco che è
nel fuoco
e dalla bocca dalla bocca dalla bocca escano
le mille piccole zampe invisibili di QUELLO
di quello che perpetuamente cola nella cavità del mio
contro-corpo
per agglutinare il mio tempo e il mio io
ma la luce si spenge
ed ecco di nuovo il mio corpo con i suoi buchi i suoi occhi
e la cavità della sua cavità
e la colata di sale il tubo di saliva il grande cantiere
della defecazione
il doppio otto del sangue e il mare di dentro dove ruttano
rantoli
e la visione non è che il passo doloroso d'una vite
estirpata
io mi rammento
e qualcosa fa tristezza
per sviluppare questo momento
quando il corpo traspirava pensiero
quando il pensiero cavava dal suo stampo il corpo
il gioco del tu noi io
1968
a Marijo e Bruno Roy
allora tu hai pensato
non capisco più
e subito
la morte dentata
il vuoto
risali risali
gridava la voce
ma già tu cadevi così in fretta che l'iride
dei tuoi occhi si era fatta bianca
oh volto
bocca cucita
la tua asola di silenzio
e dentro
tu cadi
chi
chi ritornando a sé
riconosce senza un brivido l'altezza della sua caduta
e i tanti buchi sul muro del tempo
che la memoria è un dolce di miele amaro
e dentro
tu cadi
e questo ricomincia
e non ha più fine
e tu pensi io io io cado
ma cos'è che io
cos'è che io penso
naturalmente, ti vien detto, il sonno è un'
altra vita di cui bisogna tener conto
e tu dici
mi rammento
usciva da me
come un'ombra bizzarra
e ciò che evaporava ero io
e perciò ciò diceva io
e ancora io
senza pensarci
c'era una fronte
c'era la notte
e tu cadevi
dentro
l'ombra è meno profonda della mia sete
protestavi tu
da qualche parte
la tua caduta s'impigliava a un volto
c'era del noi nell'aria
(nella cavità sempre più cava dell'aria)
qualcuno passava
la morte è blu
le donne se ne fuggono con la luna
chi
e ogni bocca fa nascere un io
chi
griderà bugie in un buco
qui e ora
ecco in te il ricordo di te
ed è io
strano nome lo stesso per tutti
corto come un grido in tutte le lingue
e due miliardi di bocche
con questo grido dentro
grido di qualcuno che cade in sé
grido dal fondo di un pozzo
e lui dice
voi avete visto il mio doppio
io mi allontanavo da me
ero questo fumo
come l'ombra di un'ombra
e io dico
basta poesia
guarda come tu ti guardi
ma
in questo istante
anche le mie budella urlano io io io
e lo si scortica nel mio ventre
e mi si segano gli occhi
e io grido io
chi può sapere
ci sono tante bocche in fondo a sé stessi
tante bocche per una sola lingua
allora ti siedi davanti alla tua propria morte e
aspetti
e poi
la tua carne ha fame
metti la tua poesia nella tasca
liberi una gran risata
e
non si finisce di finire
dici
e
come il tempo passa
e
mangia la tua morte
immagina
immagina
la macchina da cucire cerca l'ombrello
che importa
ecco i miei nervi le mie ossa
o anche parole di parole
tutto il mio sputo
d'altronde
tu cadi
d'altronde tutto ricomincia
e questo fa così tanti visi
che un dio si direbbe sbucci la sua faccia
ma che somiglia a sé stesso
e che non grida
il mio volto è la prigione dell'amore
tu io
tu ti io
- Chi è?
- Tu.
- Ed è chi?
- Un altro nome per l'altro nome.
raddoppia
raddoppia
dice la voce
e il dio riprende i suoi volti
che si incastrano come una matrioska
ridere
bisogna pure
quando lo scorticato incolla al vetro i suoi occhi di
porcellana
che nuotano nel sangue
immagini
immagini
ci sono foglie sul mio albero
e la mia logica gira in tondo
che
si bagna due volte nello stesso vento
che
si risveglia sette anni nello stesso corpo
l'unità non è che una malattia
come la sete nel deserto
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contre-mort
25/29 septembre 1954
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moi
qui chaque jour creuse sous ma peau
je n'ai soif
ni de vérité ni de bonheur ni de nom
mais de la source de cette soif
je ne promène pas mon petit démon bien policé
j'en ai dix mille me rongeant
et je leur souris
non pas comme une Joconde
non pas comme un bouddha satisfait de son détachement
non pas comme un yoghi à l'âme soigneusement musclée
mais comme un homme
auquel tous les chemins ne sont pas bons
et
à mesure que le creux là-dessous va grandissant
d'étranges machines apparaissent dans mon corps
et d'abord cet oeil qui a percé à la racine du nez et
qui me fait douter de la valeur de mes yeux
condensation du regard
triangle à l'intérieur de mon crâne
triangle sans base tel un entonnoir où s'engouffrent
les cris venus de la moelle épinière et du ventre
(du ventre dans lequel pousse un énorme fais-
ceau de racines flexibles et dures comme des
aiguilles d'acier)
triangle dont les parois incandescentes tracent dans
le cerveau une brûlure drainante
une brûlure qui est la présence même
la présence des choses qui entrent en moi comme une
décharge
une décharge brisant les écailles
brisant la paille et la poutre
brisant le filtre et les dents
il faudrait dire comment
dire la vision claire de cet oeil
qui n'a ni tendresse ni cynisme ni compassion
mais qui est vide
et inexorable
tel un nuage d'abeilles au-dessus du gouffre
la présence approche
pattes de miel
douceur tiède
et
soudain
les mille piqûres des dards
il n'y a pas d'autre issue que le saut
mais
LE VIDE PORTE
les yeux regardent à travers le seul oeil
et dans l'épaisseur de midi
les choses entrent dans mon corps
l'espace se retrousse
dedans est immense
alors
tentation d'organiser aussitôt la conquête
et d'en jouir
il fait soleil sous les épaules
j'ai une âme
je comprends
et la conscience se prenant pour l'être
voici le règne de l'outil
alors
la grâce fait caca dans la cervelle
et la convexité du corps
touche à celle du ciel
et je dors
comme un dieu remonté dans la gorge du père
il faut dire
non à non et non à non non
il faut retraverser la peau et vider dehors tout ce
dedans
il faut planter les yeux du côté rouge de l'écorché
et lécher le col de ses vertèbres
et tomber dans ce trou
et patauger dans son ventre
et baratter son sperme
il faut se crever les yeux pour boire le regard des
ancêtres
et la distance entre la fin et le commencement
avec de grands lappements de gencives molles
il le faut malgré soi
malgré les livres et la douleur
malgré la pierre noire de l'occulte et les alphabets
de la divination
et le pli de la symétrie
et le sens unique du coeur
JE SUIS BIEN QUE JE PENSE
et que je me regarde penser
m'obligeant à me chier moi-même dans la merde
de ma pensée
au lieu de rayonner
immobile
tel le soleil
comme l'espace est étalé tout entier dans l'univers
de même le temps est étalé tout entier
et de l'un à l'autre circule une gravitation
analogue à celle qui tire de ma chair
ma pensée
selon un engrenage jamais dit
bien qu'il soit la seule chose à dire
quel silence
quel regard
à cet instant du reflux où la vie laisse à sec l'os de
la structure et le sillage des nerfs
à cet instant où l'intuition se lève malgré l'orage des
gestes et du savoir
à cet instant du bas où la chair laisse apparaître les
vieilles traces au fond desquelles suinte le sourire
qui fabriqua les dieux
et la conscience
parmi les dents mortes des ancêtres
n'est plus que le couteau de pierre à dépecer
l'apparence
alors
l'oeil
visse
lentement
son regard
dans le cerveau
et la douleur au ralenti perce
et sépare
tant et si bien que transparaît le circuit
entre matière et immatière
le vieil engrenage
entre le moi qui tient chair ouverte
et le je qui vient s'y nourrir
alors
lumière
blanche
partout
comme si la viande était raclée d'en dessous
comme si une à une
chaque cellule était portée au blanc par le feu qui est
dans le feu
et de la bouche de la bouche de la bouche sortent
les mille petites pattes invisibles de CELA
de cela qui perpétuellement coule dans le creux de mon
contre-corps
pour agglutiner mon temps et mon je
mais la lumière s'éteint
et revoici mon corps avec ses trous ses yeux
et le creux de son creux
et la goulée de sel le tuyau à salive le grand chantier
de la défécation
le double huit du sang et la mer du dedans où rotent
tant de râles
et la vision n'est plus que le pas douloureux d'une vis
arrachée
je me souviens
et quelque chose fait le noir
pour développer ce moment
où le corps suait de la pensée
où la pensée démoulait le corps
|
le jeu du tu nous je
1968
à Marijo et à Bruno Roy
alors tu as pensé
et tout de suite
la mort aux dents
le vide
remonte remonte
criait ta voix
mais déjà tu tombais si vite que l'iris
de tes yeux était devenu blanc
o visage
bouche cousue
ta boutonnière de silence
qui
qui vers soi-même revenant
reconnaît sans frémir la hauteur de sa chute
et tant de trous au mur du temps
que la mémoire est un gâteau de miel amer
et ça recommence
et ça n'en finit plus
et tu penses je je je tombe
mais qu'est-ce que je
qu'est-ce que je pense
naturellement, te dit-il, le sommeil est une
autre vie dont il faut tenir compte
et tu dis
je me souviens
il sortait de moi
comme une ombre bizarre
et cela qui s'évaporait c'était moi
et pourtant cela disait je
sans y penser
il y avait un front
il y avait la nuit
et tu tombais
dedans
l'ombre est moins profonde que ma soif
protestais-tu
quelque part
ta chute accrochait un visage
il y avait du nous dans l'air
(dans le creux de l'air de plus en plus creux)
quelqu'un passait
la mort est bleue
les femmes s'enfuient avec la lune
si toute bouche fait surgir un je
criera au trou à mensonge
ici et maintenant
voici en toi le souvenir de toi
et c'est je
drôle de nom chez tous le même
court comme un cri dans toutes les langues
et deux milliards de bouches
avec ce cri dedans
cri de quelqu'un qui tombe en soi
cri du fond d'un puits
vous avez vu mon double
je m'en allais de moi
j'étais cette fumée
comme l'ombre d'une ombre
et je dis
assez de poésie
regarde comme tu te regardes
ma tripe aussi hurle je je je
et l'on écorche dans mon ventre
et l'on scie mes yeux
et je crie je
il y a tant de bouches au bout de soi-même
tant de bouches pour une seule langue
alors tu t'assieds devant ta propre mort et
tu attends