Enzo Campi - ex tra sistole (dieci sequenze per un poema irrisolvibile) - Marco Saya Editore 2017
Dieci sequenze per un poema irrisolvibile, dice il sottotitolo di
questo libro. E', fin da qui, la denuncia di un'aspirazione (e di una
ispirazione) tesa alla realizzazione di una completezza organica, di una
struttura (che la forma poema esemplifica); e la consapevolezza della
difficoltà di attingere a qualcosa di concluso, sia in termini formali
sia nel senso dell'esplorazione della materia poetata. Non è un limite,
è - direi - una coscienza. In effetti niente impedisce a questo libro di superare sé stesso, la propria carta, il limes convenzionale
di una pagina finale. Perfino chi legge lo sa, giungendo alla pagina
sessantanove, che tra l'altro termina con un unico punto interrogativo,
acuminato e ultimativo. E ora?, si domanda il lettore. E tuttavia il
viaggio è stato agevole più di quanto avvenga in quasi tutte le opere in
cui si pratica una scrittura genericamente definita di ricerca. Voglio
dire, non si attraversa, almeno non più di tanto, una selva oscura,
aggrottata, superciliosa. C'è anzi in questo libro dell'ironia, a volte
del sarcasmo, e un' infinità di incastri sinaptici, di agganci
mnemonici, di sottili riferimenti culturali, di trasferimenti verbali
per assonanza e consonanza, di metafore cognitive stimolanti e così via.
Ed una accennata architettura teatrale (prologo, parodo, stasimo, coro,
ecc.) che sembra preludere, o meglio suggerire, invitare, a una
fonazione, interiore o palese, a una messa in scena di tutto questo
materiale verbale, nella quale il lettore si potrebbe con qualche
soddisfazione cimentare (e in effetti il suono in questo libro ha una
rilevanza notevole). Certo ha ragione Giorgio Bonacini (nella
postfazione) ad avvertire il lettore che quella di questo libro non è
una lettura comunemente intesa (che cioè, dico io, si può permettere
qualche rilassatezza o disattenzione, tanto poi...), perché necessita di
"pratiche interpretative significanti", anzi "occorre leggere come se
fossimo noi a scrivere". Insomma, dice Bonacini, "se (...) non si fa
questo sforzo benefico di aderire a ogni articolazione, scrutando e
auscultando anche i minimi tratti del testo, l’opera di Enzo Campi la si
può certamente leggere, ma al minimo delle sue potenzialità
semantiche". Mi rendo conto che c'è un'apparente contraddizione con
quanto ho scritto prima, dando forse l'impressione di una facilità di
lettura. Be', questa non c'è, perché bisogna, secondo me, non tanto
mettersi nella testa di Campi ("leggere come se ecc."), quanto cercare
di capire il più possibile il suo sistema metaforico e di pensiero
(compresa la loro reinvenzione), là dove "rimanda perpetuamente ad
altro, ovvero a qualcosa che non appartiene al sistema di riferimento e
di significanza preso di volta in volta in considerazione" (Sonia
Caporossi, nella prefazione).
L'obbiettivo di Campi, proprio nel senso di un centro da attingere
anche con qualcosa di perforante, è certamente il linguaggio. Ma non il
linguaggio come territorio di scorribande, come materiale torcibile a
piacere (per quanto Campi al bisogno non si tiri indietro in questa
pratica), quanto il linguaggio o la lingua come arnese usurato,
centripeto, ricorsivo, discutibile, egolalico, che si autorigenera in
luogo comune, che si autocertifica come dominante e come langue omologa.
Che tende ad un uso "economico", non dispendioso, produttivo e (quindi)
politicamente conservatore. Che perciò, secondo Campi, è intimamente
antipoetico e antiartistico, ontologicamente manierista, incapace di
articolare cioè una definizione del reale che abbia a che fare con la
bellezza. L'obbiettivo è anche il materiale con cui si cerca di
raggiungerlo, unitariamente, la freccia è insieme il bersaglio e chi
scocca (inevitabilmente Campi mette in discussione anche la sua "resistenza" alla lingua, i suoi propri
punti di rottura, soprattutto nella perlustrazione dei limiti, che mai
vuole saggiamente superare, tra dicibile e indicibile, comunicabile e
incomunicabile). E' un abile gioco di equilibrio, un procedere su una
corda tesa di parole, molte delle quali deviate e metamorfizzate in
altre per contiguità, per assonanza, per una eterodossa parentela di
sensi e suoni, per spoliazione di significati, per de-nominazione,
ovvero per rottura dei legami tra parola e oggetto ecc.; e questo
avviene non solo sul singolo vocabolo ma anche, spesso, sulla catena
sintattica, sulla spezzatura (per la verità a volte un po' capziosa)
della frase. C'è poco di "comodo" e di confortevole in questa modalità
espressiva. Il sistema metaforico di Campi a cui alludevo è in realtà
una supermetafora del linguaggio, da una parte come corpaccio che deve
essere purgato con la necessaria "crudeltà" (e qui si rimanda a uno dei
dedicatari del libro, Antonin Artaud. L'altro è, ça va sans dire, Emilio Villa), dall'altra come ouroboros, elemento
primigenio che si consuma ma per la cui rigenerazione è lecito sperare e
lottare. In questo senso il lavoro di Campi sul linguaggio (qui
verbale, ma va da sé applicabile - e in effetti applicato - a qualsiasi
altro linguaggio artistico) non è meramente clastico, frammentante, ma è
plastico, riformante, dato che qui "da ogni disgregazione si forma uno
scarto di senso" (Bonacini, rilevando in realtà uno dei caratteri
"forti" della poesia in genere). Un processo di cui Campi dimostra di
avere una piena coscienza, anche quando sembra svelare (come ricorda
Caporossi) delle meccaniche, "una dichiarazione di poetica e di
metodologia compositiva" come in questo passo "dato un incipit
ricordarne l’ / essenza e usarlo come / collante come / legante ogni
volta che la / scorta di senso diviene / scarto a delinquere”,
domandandosi subito dopo, ironicamente “ah! / è questa la / regola / ?”.
Certo che no, almeno per quanto lo riguarda (mentre per altri forse sì,
e andrebbero verificati i risultati, alla fine). Molto più
probabilmente Campi crede in altro: "la / regola parla chiaro / bisogna /
copulare avec la / barbaque / raspando con / ruvide lime i /
residui di / senso di / messe mai / celebrate e / pure sublimate in /
pomposi baccanali". In altre parole bisogna affondare le mani e il corpo
intero nella carne viva, nella materia bruta, raschiandola all'osso,
rinnovando una non superficiale comunione poetica con essa. E' evidente
la distanza tra la prima e la seconda "dichiarazione": lì il linguaggio
genera le cose e sé stesso (non necessariamente rigenerandosi), qui la
materia genera il linguaggio (quel linguaggio) con cui è
possibile descriverla. Una delle più impegnative dichiarazioni di
intenti che abbia avuto occasione di leggere da un po' di tempo a questa
parte. (g. cerrai)