Alcuni testi tratti da "disAccordi - Antologia di poesia russa 2003-2016", edita da Stilo Editrice, a cura di Massimo Maurizio, che raccoglieesempi di una produzione recentissima e giovane (gli autori sono nati tra il 1962 e il 1994), spesso pubblicata solo al di fuori dei canali tradizionali, in blog, siti, riviste alternative. Una produzione anche stilisticamente e tematicamente differenziata, lungo però un filo rosso che il curatore ha individuato nella percezione comune della violenza, strisciante o palese, quotidiana o storica, individuale o collettiva. O anche istituzionale, quella insita fin nel linguaggio di sistema, omologato dalla politica e dai mezzi di informazione, cui l'artista reagisce con una "volgarizzazione", con la violenza verbale della lingua dei violenti. C'è la guerra (compresa la guerra in Ucraina), la ribellione, la rielaborazione del passato in chiave identitaria, la riflessione sul linguaggio, sulla funzione della poesia, sulla cronaca.
I testi che ho scelto mi sono sembrati interessanti, altri contenuti in questo libro un po' meno, ma oggettivamente non sono in grado di stabilire in quale misura la traduzione ha contribuito o ha influito in un senso o nell'altro. In entrambi i casi però rimane forte l'impressione di voci così diverse e distanti dalle nostrane, di forte impatto anche nelle manifestazioni più liriche, anche quando prendono in prestito modalità e atteggiamenti occidentali "arrabbiati" e un po' beat che noi riterremmo ormai datati irrimediabilmente (e certo hanno buoni motivi per farlo, di alzare per quanto possibile la voce). Soprattutto una poesia poco incline all'introspezione autotelica, alla speculazione simbolista, al facile psicologismo.
I testi originali sono stati omessi per difficoltà tipografiche, ma sono a disposizione di chiunque fosse interessato a (e capace di) leggerli.
Elena Fanajlova
La mia prima nonna
Prima perché è da parte di mamma
Mia mamma è fondamento del mio intelletto
E del mio cuore. La nonna è come un piedistallo
Portava la dodicesima di reggiseno, dio nutrice di tutta la famiglia.
Cucino il suo boršč ancora oggi.
Era la mia dea. Non posso criticarla.
Anche se ce ne sarebbe motivo. Ora lei sarebbe per
[l’annessione della Crimea.
Come a suo tempo era per Stalin.
La si può capire.
Figlia di un bracciante ucraino
I villaggi di ucraini
Erano frequenti nelle nostre terre.
Lui andò a cercare lavoro nella capitale e abbandonò la famiglia,
Quattro bambini.
Lei si buttò anima e corpo nella rivoluzione. Vi trovò se stessa.
Aveva 15 anni. E, ovviamente, la svolta a sinistra.
La giustizia. Ragazzi con l’eloquio dolce.
Tra di essi c’era mio nonno.
Studiò con Platonov a Voronež alla scuola di partito.
Non credo che qualcuno oggi ricordi quel mondo,
L’edificio che apparteneva all’istituto medico,
Di mattoni rossi
Nel parco Detskij
Perseguiva i kulaki a Tambov
Sparava
Là incanutì
Quando lanciarono dei coltelli dietro al suo carro
Davvero non capiva
Che il nonno era per metà ebreo
Non gli interessava affatto
La questione nazionale
Soltanto il sesso e la rivoluzione
La guerra civile
La vittoria del comunismo
Erano semplicemente bellissimi
Delle furie biondissime
Gli occhi marroni li ho presi da tutti e due i nonni
Io sono la copia esatta di due fotografie salvatesi per miracolo:
Della madre di mio nonno, l’ebrea polacca Raisa
E mia nonna di Char’kov, Avdot’ja Petrovna
Ma Ganna, Anna Ivanovna,
Una furia biondissima con lo sguardo russo ariano ucraino impudente
Nei suoi occhi azzurri senza colore da vincitore della storia,
A me noto tra l’altro da alcune foto degli anni Trenta,
Galina Bujvolova – il mio primo amore di bambina.
Le sue mani non mi parvero mai dure.
Il suo petto non mi parve mai troppo sciatto,
Sebbene vi facesse sempre cadere delle gocce di boršč –
Le gridavo addosso quando interrompeva le mie telefonate
Con i primi fidanzati.
Mi faceva ridere e mi inteneriva quando
Cercava di stabilire un rapporto con loro
Le tagliavo le unghie gialle inspessite da vecchia
E pulivo la sua merda
Quando non riusciva a portarsela fino in bagno
Ero il suo partner d’affari quando mia madre stava morendo
E ci vollero due anni
(qui la pellicola si interrompe)
Ieri ho di nuovo sognato che mi lasciava in eredità,
Ad uso esclusivo,
La sua favolosa casa a sud della regione di Voronež, sul confine ucraino,
Che io possederò dopo la morte.
Linor Goralik
Ad Aleksandr Baraš
Com’è possibile scrivere versi dopo il quattordici aprile del 1942?
Dopo il 6 febbraio del ’43? Dopo l’11 marzo del 1952?
Com’è possibile scrivere versi dopo il 22 giugno del 1917?
Dopo il luglio del 1917? Dopo il marzo del 1984?
Com’è possibile scrivere versi dopo il 6 novembre del 1974,
L’11 settembre del 1965, il 1° agosto del 1902,
Il 9 maggio del 1912?
Com’è possibile scrivere versi dopo il 26 del mese scorso?
Dopo il 10 giugno dell’anno scorso? Dopo il 12 giugno?
Dopo il 14 dicembre del 1922?
Dopo questo giovedì?
Dopo quello che è successo oggi alle tre?
Più orribile, probabilmente, fu soltanto il primo novembre del 1972.
Soltanto il 12 aprile del settantatré fu, forse, ancora più terribile.
O il sei agosto dell’86. Il 4 settembre del 1913. O, diciamo,
il venticinque luglio del 1933. O il ventisei.
Qualcuno probabilmente è caduto dalla scala a pioli in biblioteca,
si è fratturato la colonna vertebrale, non potrà mai più muoversi.
Qualcuno, probabilmente, è morto di morte violenta,
facendosi saltare in aria per sbaglio con gli ostaggi.
Il bambino di qualcuno quasi certamente è andato a prendere un gelato,
soltanto a due isolati di distanza,
e non è mai più tornato.
No, soltanto dietro l’angolo. No, soltanto nella casa accanto.
No, è tornato diciotto anni dopo, il 25 marzo.
O dodici anni fa, il 24 novembre, alle 15:00.
È morto il 26 del mese scorso.
Ha scritto in tutto una sola poesia, molto brutta.
Kirill Korčagin
Vestiti vecchi
1. Aisha
stava di fianco a me e chiacchierava con me
e rideva forte e di cuore mentre
stavano uccidendo i suoi uomini
sebbene a sommare i nomi degli uccisi
sono morti soltanto quattro esponenti
di una tribù e otto
esponenti di un’altra
persino i conflitti famigliari
sono non di rado generati
dal problema degli strumenti del potere
non si può domare con la bontà del cuore
la crudeltà dei costumi locali
e l’hanno ucciso come si svuota
un secchio di immondizia
e gliel’han portato in braccio
la paura ma anche la rabbia si accompagnano
a un’attività incredibilmente intensa
del sistema nervoso simpatico
questo può causare un disturbo incurabile
degli organi deputati alla circolazione del sangue
quando la estrassero dall’automobile
quando le ruppero il naso con il calcio del fucile
quando lei comprese
che era arrivato il suo turno
non c’erano né i soliti lavori umani
né una lussureggiante natura solo il cielo
sopra la testa e la terra sotto i piedi
incolore informe incorporea
che non aveva né bocca né lingua né denti
né laringe né intestino né stomaco
né pancia
occorre comprendere esattamente
di cosa parla questo teorema
le persone non muoiono mai
haràm alaykùm haràm alaykùm
Dmitrij Kuz’min
Dagli ultimi dati di un’inchiesta sociologica:
l’88% della popolazione del mio paese è nazista.
È una notizia di merda, penso io nel vagone della metro pieno da morire.
È vero che non intervistano i minorenni, ma con genitori,
insegnanti, passeggeri del genere non c’è nessuna speranza.
88, una cifra furba, non devi più
masconderti dietro al 14.
Certo, è soltanto una media, penso io,
nel parlamento del mio paese, probabilmente, si arriva al 100%,
e alla serata di poesia di ieri, probabilmente, non è più di zero.
Ma non credo che alla stazione «Oktabr’skaja» la gente puzzi più
che alla stazione «Komsomol’skaja», in fondo li ha riuniti qui il caso.
Penso che nel vagone ci siano un centinaio di persone,
ma è impossibile indovinare chi sono tra loro quei 12.
Forse soltanto quel mulatto con la maglietta bianca con le lettere russe nere:
«Tratta gli altri come vuoi che trattino te» –
è facile immaginare che cosa stia dietro a quella scritta.
Ecco, quel ragazzino sui vent’anni con i capelli viola –
quasi di sicuro, nei quartieri malfamati per capelli così ti picchiano,
e quello, mio coetaneo, con un tatuaggio rosso e verde sullo stinco –
non è detto, troppo palestrato. Poi il vecchietto,
con la barba di tre giorni e tutte quelle medaglie sul petto
legge la «Komsomol’skaja pravda» – è escluso,
un altro con una barbetta curata e la «Novaja gazeta» –
difficile dirlo, non sono sicuro, quella signora anziana e senza trucco
con un opuscolo sottile in mano – non riesco a vedere se sono
ricette – allora c’è qualche possibilità, se sono preghiere – nessuna.
Più in là, in fondo al vagone non si vede niente.
Ma qualcuno, certo, è riuscito a camuffarsi,
nulla nei vestiti, nella pettinatura, nelle maniere che lo tradisca.
È una competenza utile. E tu, Zazie,
ora sei cresciuta, ma non ti sei separata dalla tua frangia lunga,
ora hai cambiato il tuo maglione color arancia con pantaloni rossi,
ora hai un solo orecchino all’orecchio destro, stai attenta,
non credere che nella folla non si veda come abbracci la tua amica,
non credere che la tua minore età renderà qualcuno più clemente,
e se uno degli 88 arriva al pulsante per parlare con il macchinista,
questi potrebbe far venire direttamente davanti alle porte del vagone
i vigilanti di turno della gestapo della stazione «Leninskij prospekt».
***
A.R.
Sei meraviglioso, mio amato,
sul lenzuolo verde gettato sul divano sgangherato,
con i tuoi brufoli, che a vent’anni non hai ancora mandato via,
con il buco del piercing sul labbro superiore infiammato,
con le ciocche lunghe e arruffate del colore della paglia marcia,
e la pelle di un giallo lunare, abituata a stracci orrendi,
che non ha mai visto nemmeno il sole debole di qui.
Un eros incarnato sotto la dura scorza di thanatos.
Per la quinta volta il tuo cellulare squilla senza fine,
il numero viene riconosciuto come «Mumin-mamma»,
ma tu ti limiti a scacciare dall’orecchio un bombo invisibile,
senza emergere dal tuo russare discontinuo con il fiato che sa di assenzio e gin.
Potrei cercare la tua borsa, frugarti nelle tasche,
potrei levarti le mutande comprate da mamma e le tue calze puzzolenti,
potrei scoparti, visto che ti sei girato su un fianco
e hai piegato l’anca verso la pancia,
non ti sveglieresti, fino all’alba non ti sveglieresti,
e all’alba non ricorderai che cos’è successo ieri sera in quel pub
e di notte nell’appartamento in affitto in via della Primavera,
qualcosa c’è stato, ma ti è scivolato tra le dita
nelle acque scure dell’inconscio, coperto da una lastra di ghiaccio,
insieme al nome della ragazza dell’altro ieri e alla parola «futilità».
È stato futile il tuo servizio di volontariato di due mesi all’ospizio,
è stato futile presentarsi con quel goffo nome inventato,
è stato futile, addormentandoti, tirare la mia mano verso il tuo membro goffamente eretto,
e poi tentare di mordermi la vena sul polso sinistro,
vendicandoti per la perseveranza del palmo destro
(infilami, come un cockring, nel tuo cuore non circonciso), –
la morte ti copre con la sua patina spessa,
si sovrappone a se stessa come delle banchine,
ma se io ti sparassi, come quella volta a Bruxelles,
se io ti sputassi addosso una scarica di metallo o di semi,
qualcosa, lo so, si sprigionerebbe da me, verso di te:
sangue, amore, versi, versi, versi.
Galina Rymbu
La scuola
adolescenti che leggono «la società dello spettacolo»
io dico: «non è un po’ tardi?»
mi rispondono: «no, l’orologio indica le sei»
settembre. i sistemi circolatori della scuola
nel boschetto di betulle di un riformatorio.
nell’aula di biologia i corpicini dei ratti in formalina,
il topolino morto d’una nazione a brandelli.
mi sono sdraiato con la testa tra le foglie. sul petto i fiori secchi dell’elicriso, l’immortale.
sulla lingua i tesori neri del formalismo russo.
nel boschetto soleggiato un ragno infila i ceppi
sui rami sottili. e l’insegnante
sporco di sangue s’accascia di colpo.
apro gli occhi e vedo i bambini cospargere di terra un grande cuore.
la nebbia dei libri si dirada.
il bianco crepuscolo. la prima sigaretta.
abbracciata alle ragazze in una palla di fumo
siam serrate. la carta straccia
si innalza verso l’alto. la schiuma nera
dei caratteri tipografici dalla nascita di cristo.
la bocca strappata della televisione di stato.
le grigie interiora della stampa indipendente.
poliziotti morti nell’aula di biologia durante una lezione
aperta imbacuccati in un pelame debilitato.
lunghe colonne di persone in fila sulla strada per casa:
di che cosa vi si tace?
fogliame rosso, giallo… corpo infantile e scudo
un urlo improvviso.
andiamo via di qua. ma non c’è
qui alcuna stazione. sbatto contro i muri.
il fil di ferro squarcia il corpo,
lo avvolgono chilometri di pellicola alimentare.
nel profondo delle arti locali dormono i curatori di carne,
cuciti di polpa di maiale, conditi con polpa di vitello
durante l’intervallo di un tempo sospeso baciano il membro del preside
l’edificio della scuola coperto di scaglie leggere ondeggia al vento
un piccolo fienile, un carrozzone mobile
è in ogni cuore, celato nei dorsi dei libri,
come l’istituto della famiglia e della proprietà
contro il lettore,
contro di te,
contro l’uomo,
un carrozzone che si fa largo come una fiamma
che afferma soltanto
menzogna, menzogna, menzogna.
***
il sonno è passato, Lesbia, è giunta l’ora della mestizia,
È ora di gettare gli anelli e i vestiti nel falò di sangue
per la gloria del buon ricordo delle sorelle nostre
mandiamo i calici in frantumi!
o, Lesbia, l’ora della guerra è giunta,
di comprare armi pneumatiche da ometti tarchiati
e nella custodia del mac book nascondere una lama, un punteruolo
e procedere, a denti stretti, in mezzo a file scure di fasci.
o, Lesbia, quest’ora è sdraiata, come un corpo costretto in una tomba,
come la sua vittima ha il cranio spaccato
e il sangue gli copre il viso, lo sguardo indifferente.
se appoggi la mano sul mio petto puoi sentire
come batte il cuore, come questa notte ci schiaccia?
è giunta l’ora di uscire ubriachi sulla tverksaja, su prospekt mira
e di abbracciarsi.
un’ora tale che l’amore e la politica sono una cosa sola,
e la polizia e l’odio sono qualcosa di diverso.
dove le lezioni pubbliche sono sostituite da lezioni di lotta di strada,
dove il respiro al gelo si trasforma in università libere e immaginarie
la mascotte delle olimpiadi miška sta in ginocchio,
e accanto a lui un bambino sta in ginocchio,
vedo, Lesbia, un rasoio nella tua mano, i capelli scompigliati, lo sguardo è folle.
fermati dunque sopravvivrà il nostro cuore!
guardando i genitori negli occhi, attraversando il cortile in mezzo agli schiaffi,
attraversando di corsa i cordoni come uno sfolgorio,
lasciando graffiti e versi,
Lesbia, alzati! è giunta l’ora di cantare una canzone allegra,
sputando sangue e briciole di denti,
coprendosi la faccia con le mani, squarciando l’asfalto,
intanto i nostri fratelli, i nostri amici, i nostri genitori
si sono levati in cerchio e gridano: «hop! hop!»
non so quali libri bisogna leggere,
quale lotta politica bisogna portare avanti qui,
quanto chi ti sta intorno non è né morto né vivo,
come se si fossero accordati, nell’oblio stabiliscono un ordine,
quando ti passano sulle labbra un membro che sa di piscio
dietro a un mucchio di lavagne nel cortile della scuola: «ora ti insegniamo noi»
questa notte non è né viva né morta,
quando non conosci la lingua dell’altro,
alzati, Lesbia! basta stare in ginocchio, alzati!
alzati, mia amata, anche se si trattasse di morire
e questo falò, orribile e da paura, questo desco di carne,
questi vermi sulle teste della «chunta nera»,
queste urla, botte, manifestazioni, gemiti – tutto marcirà nell’abisso.