Giovedì, 20 ottobre 2016
Claudio Salvi - Album - Arcipelago Itaca, 2016
Un libro, questo qui di Claudio Salvi, che insieme coinvolge (anche a
livello concettuale) e un po' perplime. Il che è molto di più di quanto
si possa dire di tanta poesia, cioè sostanzialmente un successo. Questa
estrema sintesi (e vengo a spiegarmi) si ritrova in parte in quanto
scrive Giulio Mozzi nella postfazione, che poi vedremo. Intanto il
titolo, Album. Album di che cosa? Mi pare che sia
contemporaneamente di foto, nel senso di immagini, scatti, attimi o
inquadrature non sequenziali raccolte con un medium (in questo caso la scrittura); e di schizzi, ciò che gli inglesi chiamano sketches, appunti lineari di una realtà che c'è, e in un dato momento appare pur non essendo evocata, e che viene registrata a futura memoria, cioè per spostare a dopo la
realizzazione di qualcosa. L'idea della foto è presente anche
esplicitamente, essendo citata nei testi, con i suoi correlativi, almeno
una ventina di volte. Come pure è presente un concetto, forse meno
esplicito, di inquadratura brevissima, veloce, poco più di un frame,
all'interno del quale l'autore è spesso mimetizzato. La brevità, in
parecchi dei testi (non tutti), è infatti uno di tratti salienti, direi
stilistici, e io credo che lo sia in relazione a quanto abbiamo appena
detto, ma anche a una convinzione dell'autore che mi pare di
intravedere, ovvero che la realtà sia afferrabile per lampi fenomenici,
presenze, leggi del caso, qui e ora di pura combinazione. In
questo senso mi pare che gli schizzi di cui parlavo possano essere
l'espressione - anche - di una speranza, di afferrare il lampo
(fotografico?) ora per capirlo dopo. Che poi la speranza si dimostri
vana o accantonata o volutamente rimossa, questo è un altro discorso. Lo
sguardo è qui essenziale e funzionale, ma è una risorsa che potremmo
definire non strumentale, accessoria, uno sguardo che non ritorna veramente indietro. Un rivolgere lo sguardo, un gesto di
indicare, dice Mozzi. E' la presenza ontologica dell'autore,
l'essere-nel-mondo di uno che c'è e scrive, un esserci tuttavia non
proprio impersonale, non solo perché a volte dice "io", ma anche perché,
se proprio vogliamo fare i pignoli e parlando per metafore, cerca di
assumere in sé tutte le categorie barthesiane, facendo la parte di operator (chi "scatta"), di spectator (chi guarda) e di spectrum (il
soggetto, anche se di riflesso, anche quando fa finta di non esserci,
aleggia). Quindi, in un certo senso, tutto fagocitando. Se la prima
sezione è intitolata Album come il libro, la seconda, diciannove testi brevissimi che direi - come forma - sono prosa in prosa, si chiama Polaroid. Continua la metafora fotografica, ancora la messa a fuoco one shot (tentata, fallita, o ininfluente), ancora l'idea di una realtà colta sul fatto, senza
prima né dopo e quindi senza prodromi né conseguenze. Non un diario,
come Warhol amava definire la sua Polaroid, poiché in effetti in molti
casi non c'è niente di esistenziale da registrare, questi schizzi non
sono studi preparatori di alcunché. Non dissimile la sezione Sogno,
tredici frammenti anch'essi in prosa di due tre righe, anch'essi quindi
brevi ma costipati di cose, di microeventi o microazioni. Già, azioni.
Perché, a ben vedere, non di rado il fotogramma si dilata, slitta,
appare "mosso" da un movimento rattratto a cui concorre anche l'uso dei
tempi verbali (presente, imperfetto, passato prossimo), come avviene in
questo testo (completo), che assomiglia anche molto (cosa interessante)
ad un appunto di sceneggiatura:
ci sono delle persone con gli ombrelli. un uomo correva.
allora è cominciato a piovere, ma non lo vedo.
è diventato più freddo.
oppure come in questo altro testo, tratto da Album:
il venditore di cocomeri si è fermato sotto la casa della ragazza.
le tremano le mani quando lui le consegna il resto.
Nell'ultima sezione, Altri scritti, l'atteggiamento è invece
ancor più prosastico, con anche al suo interno alcune affermazioni che
potremmo definire di poetica o visione del fare poesia col mondo,
le immagini che presento non hanno niente di umano. a me piace
guardare un buco per la forma che ha, non per quello che di umano porta.
come pure, più avanti,
in fondo non si fa altro che ripetere quello che c’è. le cose
cambiano però quando qualcuno mette la copia in mezzo a un numero di
originali tra cui non si può distinguere.
atteggiamento che più si avvicina alla sensazione che registra
Giulio Mozzi nello scritto conclusivo e cioè che "leggendo i testi di
Salvi [ci si abitua] a uno sguardo che è insieme molto assertivo (la
forma del buco!) e per niente assertivo". Sul dibattito, a volte fondato
a volte specioso, tra poesia assertiva e non assertiva il discorso è
tutto aperto e qui lo lasciamo perdere. Ma la cosa è interessante,
senza dubbio. Mi diverte pensare (e questo certo fa parte del fascino
del libro) che Salvi scrivendo avesse in mente Duchamp che per
vent'anni ha lavorato a costruire un buco, la sua opera segreta (Étant donnés: 1. La chute d'eau, 2. Le gaz d'éclairage),
una porta massiccia con uno o due pertugi da cui si può gettare lo
sguardo su una rappresentazione misteriosa. Certo, magari in sottofondo
c'è Benjamin (la copia in mezzo agli originali) o ancora Barthes, con la
sua idea che la foto (qui la poesia) possa essere riprodotta (letta)
all'infinito mentre quel che è stato còlto è - da un punto di vista
esistenziale - irripetibile. Ma è il dato di realtà (il donné)
che è intrigante, anzi perturbante, è questo sguardo un po' voyeuristico
(che a volte osserva il pleonastico: "in inverno nevica. i pesci girano
nella vasca."; "piove in un verso poi cambia inclinazione. dipende da
dove arriva il vento.") che dà da pensare. Forse ha ragione Mozzi quando
scrive: "Non vedo niente (niente di particolare, niente di attraente),
quando leggo Salvi, ma vedo". Il dato (il donné) è lì, si
tratta di vedere, anche se poi per quali conclusioni trarne è difficile
capire, se non forse la realizzazione di una contemporaneità irrelata
dell'immagine ("penso che questi sono i miei contemporanei", scrive
l'autore), di un vuoto totale che finalmente conquista quei "non luoghi"
che ci hanno ammorbato in poesia per anni ("territori senza luce.
stazioni illuminate. / luoghi vuoti. / luoghi parati a festa senza
uomini e donne. / tempio vuoto. case vuote. stazioni vuote. / luoghi in
attesa. o soltanto vuoti"). Ma il punto è che questo sguardo può essere
gettato ovunque, ad libitum. E' questa una poesia ad libitum? E' forse
la poesia di chiunque altro si metta davanti alla finestra e annoti quel
che vede o gli viene in mente? Una poesia modulare, una poesia che potrei-farla-anch'io? Uhm, non è così facile, è un po' più problematica la faccenda. Leggere per credere. (g. cerrai)
da Album
è andata così.
a. prende un succo di arancia − esami a breve − in abito da morte.
nessuno incontra una maschera affine.
il seminudo sta in posa.
costumato salta a ogni foto.
g. ha pitturato la bocca (in sé la cosa è niente).
è poco un abito di velluto.
un cane la annusa. io conosco il suo odore.
è caduta un po’ di pioggia.
il neon illumina i muri.
più tardi un grassone che ha sudato ride.
***
questa mattina c’era movimento nell’appartamento di fronte. f
due uomini in calzoncini e scarponi attraversavano il soggiorno.
uno di loro ha fatto finta di non notarmi, nudo a prendere
le mutande. più tardi nel pomeriggio un grassone spazzava il
davanzale con le dita di una mano. adesso le finestre sono chiuse
e viene sera.
***
comprano la casa.
un primo piano con una bella luce.
qui è la nostra stanza, qui il bagno, dice.
le fotografie sono scure. è così in questi casi.
guarda il pavimento, dice, in rilievo.
i vecchi cessi in balcone lui pensa che sono brutti.
non ti sembra un’occasione buona.
viene una pioggia leggerissima.
in corridoio si volta indietro, è buio quasi.
***
non ci vuole tanto.
un prato di erba finta ecco tutto.
e luci a forma di papavero.
un corridoio di legno dove qualcuno passa accanto a banchi schierati.
un uomo firma certi libretti.
in angolo una lampadina.
questa stinge le pareti.
poi la fila indiana di ragazzi e ragazze.
più niente da vedere.
eccetto la ragazza che corre avanti altri due passi e che tengo per il braccio.
non tenermi, ride, che faccio come il cane - e tira.
***
«quasi ogni giorno compro pane che consumo a fatica».
«costa un tanto a chilo, sono poche le cose che non dimentico».
dice il vicino.
«non esiste un orecchio disponibile al momento».
intanto un uccellino prende le briciole.
per i giardini nessuno si è visto.
forse il miraggio di un acquazzone.
il vicino tende le mani.
«ecco è finito».
da Polaroid
*
sono seduto in una stanza che non è quella in cui ti trovi - di sera.
confronta i due ambienti.
*
non è cosa metto in foto - questo non so che cosa è. sta lì davanti
il ragazzo che guarda.
*
1.interno 2.in camere.
1.il tale - a una rete tiene le mani su. là mastica un animale.
2.sezione - in camere. in queste va uno, di là uno cade.
*
questo sono io che vado a casa - i cani camminano così piano che
sono quasi fermi.
da Sogno
misurare una cosa non vuol dire forse regolarla. non è
una regola che richiedo adesso. è una misura.
come in geometria.
*
così ho fatto la foto ai ragazzi arabi che giocavano a
pallone con il muro di una chiesa.
*
ho fotografato un albero dal basso con la macchina
fotografica. era pieno di fiori. poi sono caduti.
*
bisogna fare ecc. - diceva. io ho detto un’altra cosa, non
mi ricordo. poi siamo andati fuori, era buio. ho detto un’altra
cosa, avevo fame.
da Altri scritti
le immagini che presento non hanno niente di umano. a me piace
guardare un buco per la forma che ha, non per quello che di
umano porta.
per esempio: vedo un tale che fa un palloncino a forma di animale
per dei bambini. ma quelli vogliono vedere una sfera che è
capace di volare.
in una stanza c’è uno schermo bucato. in questo caso fare un
buco è come predire la fine di uno spazio e l’inizio di uno che
non si vede.
lo schermo contiene forme integrate, disegni. è un quadrato e ha
una forma proprio come le cose che contiene.
anche lo spazio contiene forme integrate, me per esempio. per
questo si stabilisce un rapporto tra me, spazio e schermo.
cosa succede quando il rapporto si rompe?
in pratica non si può fare niente. non si può correggere. bisogna
adattarsi a un ambiente imperfetto in cui un insuccesso è quello
che è.
ma lo schermo bucato a filo del soffitto è in grado di liberarsi dalle
costrizioni materiali che ha in sé − pittura, tela, cornice, buco
− e diventare la forma che può andare verso l’alto.
|