Martedì, 11 ottobre 2016
Antonio Bux - Kevlar – Società Editrice Fiorentina, 2016
La raccolta poetica Kevlar di Antonio Bux, divisa in due sezioni: Capitanata e altre poesie e L’oppio di Barba, ci rimanda
immediatamente alla musicalità, al suono di un controcanto tra luogo e significato, tra disposizione strofica e ricongiunzione de la chose envolée
spostando continuamente il baricentro dalla dottrina ontologica e purgatoriale del mondo ai luoghi fisici e metafisici della coscienza.
Musicalità, struttura e spazio (la musique avant toute chose, la musica prima di ogni altra cosa, Verlaine) concedono il suono del senso, o il
senso del suono in cui significante e significato sono in continua corrispondenza come compito primario e necessario del poeta. Attraverso l’uso
consapevole della metafora, a volte drammatica e sigillata nella sua misteriosa propaggine, si realizza l’atto creativo in cui terrestre e immaginazione
offrono un tono privilegiato all’osservazione/celebrazione del reale. La sensibilità dell’autore non si esprime sic et simpliciter per se
stesso, ma a nome di tutti gli altri che sono esseri pensanti e viventi nel mondo. Dunque, l’io lirico, la voce parlante di Valéry, supera la
consuetudine del linguaggio abitudinario: non un individualismo per fervore creativo, ma un’acutezza di ingegnosa creatività che porta l’individuo-poeta a
fondersi indissolubilmente con l’umanità intera. C’è, dunque, una chiara e dinamica consapevolezza della prevaricazione degli oggetti sulle creature, quasi
ad accostarsi alla corrente poetica del realismo terminale di Guido Oldani. A tratti la versificazione, mai scontata o abusata, ci persuade,
infatti, a concepire l’uomo singolo succube della vicenda cosmica del consumismo (materiale e intellettuale) venendone sopraffatto, inibito. Il simbolismo,
come mezzo poetico, stabilisce un rapporto intimo e conciliante con la quotidianità creando una esperienza sensitiva e onirica come maniera di generare,
riscrivere in abbondanza i tratti della modernità. Tempo (tempo tra composizione e ispirazione; tempo che smentisce la staticità delle cose e la continuità
degli accadimenti), spazio (viaggi e spostamenti geografici tra la Catalogna e la Puglia e il luogo intimo della poesia, il suo paesaggio), vita (coscienza
del sé e ruolo immaginario, interiore, incontro/scontro con il quotidiano), morte (i dialoghi con i poeti defunti e la resistenza alla fine grazie
all’allegoria del kevlar), memoria (ricordi e sedimentazioni scrupolose della forma) rimangono le tematiche portanti della scrittura di Antonio Bux che
sfida con audacia le forme nuove di espressione provocando la piacevole polemica tra etica ed estetica, tra premeditazione e dignità poetica. (Rita Pacilio)
dalla prima sezione “Capitanata e altre poesie” Ricordo centrale (Marina di Lesina)
Nella tua ombra passa la mano il bambino. Passa la mano come un adulto finito. Ma la tua ombra vive il miracolo, se sei tu bambino a rompere il giorno come ogni volta se torni a scalare la tua infanzia o se è vecchio perdono un crescere cieco distrugge noi vivi.
Presso un lido qualunque lì sulla spiaggia distrutta Marina di Lesina pareva una nube. I tuoi occhi erano la spiaggia. Nella spiaggia vi erano persone distanti e bambini giocavano sul molo aspettando il ritorno in superficie della biscia. La biscia erano i tuoi capelli. Così i tuoi capelli nel lago di Lesina, sulla spiaggia arsa di bimbi e di magie nei voli di aironi stanchi. E le mie gambe sottili anguille, e le braccia ranocchie. Eravamo piccini, diventati granelli. Poi ti ho vista rinascere battigia adulta nel boschetto anni dopo quercia a metà d’un polmone di vento. Eri diventata dell’aria, di tutto il silenzio. E io tornato a quel lido, spiaggia qualunque.
Vico del Gargano
Noi che disabitiamo i paesi, ignoriamo la stirpe del borgo una volta valicati, l’intralcio salatissimo. La sottospecie vivente mai umana, è l’avviso: i muri sintetici il nostro sonoro, di branchi e di grigi ascoltati all’unisono. Non è un’eco sostenibile. In paesi come Vico, dove il bianco è del sole, nasce ogni ora una luce palindroma. E nessuno più è vivo. Qualcosa d’aldilà respinge. Ma la cinta antica dei morti, costringe a restarci.
Uno sparo ha cambiato la corrente. Non è stato il bosco ma il silenzio scordato dei passi. Così il ranocchio ha sentito l’aria girare, ed è impazzito. E così tutti, insieme pazzi: la formica più piccola della cava e il fagiano cacciato dal lago e dall’ultimo cielo e il pipistrello squilibrato nelle onde e poi la volpe e poi il bradipo e poi il serpente rimasto alle squame. Ma una profondità di campo non fa l’aria, solo giova alla rosa, imputridendo. Eppure, nato il verme, comincia la raccolta. Nato il verme è la pace. Ma uno sparo sconfigge l’aria e la rosa col verme impazzisce dal botto. Però ora la sera non spara. Ora è severo divieto sparare. A meno che da un rumore invisibile nasca un nuovo cecchino. Forse l’uomo, sbagliando bersaglio.
Dialoghi con Rio (prima parte) Vedi, Rio, il peschereccio è sdraiato sul mare. In bilico, con la fune a torcicollo. Siamo chiusi come quello. Dalla luce dell’acqua filtra una murena muovendosi fa venire fitte alla visione. C’è odore di cancrena, arriva dal rivolo di un rovo spento. Passiamo ore al mattino, negli occhi diradando sulla battigia come vuoti, alghe fetali. Tu non sai di essere finito ed io non so la fine come arrivi se da un profondo mal di schiena o da un sorriso avvolto nel piombo. So che farà male, che sarà come fumarsi una stagnola, tradendo gli altri cresciuti a pasticche. Dentro il mare barcheggia il rifiuto, la storia svanita e altri stupidi esseri facendosi a gara, ma non si salverà il porto, solo una riva. Rio, tutta questa fatica, lo sguardo incagliato alle navi, è per una sponda. È per una sponda morta, che si erode.
Dalla seconda sezione "L'oppio di Barna"
La Pedrera
Oggi è il palmo grezzo, con il mortaio a coprire la calce. Tempo fa avevano smesso, c’erano due mani a tagliare, non solo foglie di cedro, ma viti e ramagli. Tra tre inverni torneranno. Come di neve, quando il tempo è la luce del mostro.
Era seduto con me Gabriel Ferrater accanto un cordone di imbecilli. Erano per lo più americani, oh yeah, pronti a gettarsi di sotto dal cornicetto della Pedrera. Io non ero tra questi, ero più morto, mentre l’altro, Gabriel, spingeva l’aria davanti a sé e ripeteva: non voglio puzzare di città, no quiero oler a ciudad. Andò giù. Gli imbecilli presero a piangere, tornarono scheletri. Io pensai all’aria spinta in avanti, a me e al mio odore italiano. Me ne andai. Le mura sono l’altro specchio, una cecità più sotto, demolita. Casa Batlló
a Pere Gimferrer Vorrei volare nel ricordo di quando ero felice ed essere felice di non ricordare se non so volare ma solo ho fastidio dei molti esseri che mi sorvolano senza di me che non so vivere alto come loro perché vedo corto in me attaccato dai troppi ricordi che non mi fanno felice volando.
Pere Gimferrer non l’ho mai visto, però mi ha detto una volta che Casa Batlló non esiste. È un'immagine di rose cadute, un giardino tradito. Gli risposi che da qui l’aria è una vertigine misteriosa, soggiorna e fa luce più sotto. E questa casa, casa morta, volta a un emisfero di crani rimedia il paesaggio come un gatto miracolato. La mia risposta non gli piacque, e scomparve dietro la mia giacca. Però ho tradotto cinque poesie di Gimferrer. Una proprio davanti a questa casa. Ne ricordo ancora la chiusa: Al vertice dell’aria vivrà l’aria, nel cerchio a cupole del vento.
Antonio Bux
(Foggia, 1982) vive tra la Spagna e l’Italia. Suoi lavori e recensioni sono apparsi in numerose antologie (tra le quali: InVerse 2014/15 - Italian poets in translation; a cura di Brunella Antomarini, Berenice Cocciolillo e Rosa Filardi, Roma, John Cabot
University Press, 2015) e sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali (come “Corriere della sera” e “L’Unita”) oltre che in diverse riviste
(tra le quali “Poesia”, “Italian Poetry Review”, “La manzana poetica”) e lit-blog (come Nazione Indiana, Poesia 2.0, Vallejo&Co.) sia nazionali che
internazionali, dato che molti suoi testi sono stati tradotti in varie lingue. Ha curato la traduzione del libro Finestre su nessuna parte (Roma,
Gattomerlino Superstripes, 2015) dell’autore spagnolo Javier Vicedo Alos, oltre che la traduzione di testi scelti di numerosi autori, tra i quali Leopoldo
Maria Panero e Julio Cortazar. Ha pubblicato vari libri (Disgrafie [poesie 2000-2007]; Trilogia dello zero; Turritopsis
; 23 [fragmentos de alguien]; Sistemi di disordine quotidiano; Un luogo neutrale; Sativi; El hombre comido), due dei quali, scritti direttamente in spagnolo, sono usciti in Argentina. E risultato finalista e vincitore di alcuni premi, tra i quali
il premio Iris di Firenze, il premio Minturnae, il premio Lorenzo Montano e il premio “Piero Alinari” 2014. Dirige, per le Marco Saya Edizioni di Milano,
la collana “Sottotraccia”, e cura il blog Disgrafie (antoniobux.wordpress.com).
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