Leggo sul Corriere della sera del 2 dicembre un trafiletto di M.Persivale intitolato "Il tramonto del congiuntivo". Che il congiuntivo se la passasse male si sapeva da tempo, soppiantato da forme verbali piu' semplici ricalcate a volte dall'inglese, sostituito da un indicativo appiattito e privo di sfumature, espulso a calci anche dai telegiornali. Fin qui, in un certo senso, niente di strano: le lingue sono organismi viventi, soggetti ad una loro evoluzione, un loro uso e riuso, una loro consunzione. Quello che registra l'articolo e' pero' la notizia che "lo sfortunato modo verbale e' stato relegato, nei libri d'italiano per stranieri, tra le sezioni di studio avanzate; quelle che, in pratica, non servono a chi voglia ottenere un diploma di conoscenza intermedia della lingua". Allo stesso modo, puo' capitare di frequentare le scuole di italiano per molto tempo "prima di incappare nello studio dell'insidioso congiuntivo", con il risultato che quasi tutti rinunciano a impararlo. C'e' quindi non una evoluzione, ma una dismissione a priori del congiuntivo, una abrogazione statutaria, una specie di pulizia etnica linguistica. Naturalmente si puo' vivere senza congiuntivo, e puo' darsi che "Non chiederci la parola" di Montale funzioni bene lo stesso senza di esso, ma quello che dovremmo chiederci e': quali sono i limiti di questo riduzionismo o minimalismo linguistico, sopratutto dal punto di vista dell'espressione artistica? E' indubbio che si possa fare arte, poesia nel nostro caso, anche riducendo la gamma delle possibilita' linguistiche a disposizione, eliminando per esempio i cosiddetti connettivi, come hanno ampiamente dimostrato le avanguardie. Ma si tratta pur sempre di una scelta, come quella di un pittore che decide di usare solo il bianco e il nero (Manzoni, Burri, ecc.), una scelta magari "ideologica" o concettuale, ma non obbligata dalla progressiva riduzione dei mezzi, della tavolozza, dei significanti. Allo stesso modo un poeta puo' coscientemente decidere di utilizzare il madrigale o la computergrafica, e, se scrive, di fare una poesia con soli periodi ipotetici o verbi soltanto all'infinito, oppure ricorrere in maniera metalinguistica al riuso di termini arcaici. Da qui deriva una specie di responsabilita' nel confronti della lingua, almeno da parte di chi la usa per fare arte, una responsabilita' per cosi' dire conservativa, non conservatrice ne' formale, direi piuttosto pluralistica e tollerante, orientata alla gamma, al ventaglio delle possibilita'.
Insomma, mi dispiace per il povero congiuntivo, cerchiamo di fare qualcosa per lui, tanto piu' che esso "e' il modo della possibilita', del desiderio e del timore, dell'opinione soggettiva o del dubbio, del verosimile o dell'irreale, viene usato generalmente in proposizioni dipendenti da verbi che esprimono incertezza, giudizio personale, partecipazione affettiva" (M.Dardano - P.Trifone, Grammatica Italiana, Zanichelli). Una descrizione, mi sembra, che molti poeti, magari sostituendo "modo" con "mondo", potrebbero sottoscrivere come una delle possibili definizioni della poesia. (g.c.)