Martedì, 26 aprile 2016
Come avevo anticipato (vedi) pubblico qui di seguito il saggio di Roberto Galaverni su W. Szymborska contenuto, insieme ad altri di grande interesse, nel volume "Szymborska, la gioia di leggere. Lettori, poeti e critici", che viene in questi giorni presentato al pubblico in una serie di incontri. - Per gentile concessione della Pisa University Press e dell'autore, che ringrazio. Tutti i diritti riservati.
Il primo libro che ho letto di Wisława Szymborska è stato Gente sul ponte, una ventina d’anni fa ormai. Non ricordo se l’accostamento tra la sua poesia o, più precisamente, tra il suo modo di fare poesia e quello del tardo Montale sia scattato già allora, ma certo da parecchio tempo fa parte dei miei pensieri. Proverò a spiegarmi, anche perché il parallelo tra il poeta del male di vivere (o di quel tanto di diluito, se non di fatto poltiglia, che ne è rimasto nella sua più tarda stagione) e la poetessa del sorriso e della gioia di vivere, o per lo meno di scrivere, sarà forse apparso subito alquanto discutibile. C’è però un’altra ragione. Svolgendo questo ragionamento penso infatti di poter chiarire qualcosa anche riguardo alla mia idea della poesia della Szymborska.Solo due avvertenze. Quello che un po’ sommariamente intendo come il tardo, l’ultimo, il vecchio Montale, è in realtà al suo interno piuttosto diversificato, come diversi tra loro sono i suoi ultimi tre libri: Satura, il Diario del ’71 e del ’72 e il Quaderno di quattro anni. Ma è vero che si tratta di una definizione alquanto pratica e in ogni caso legittima, dal momento che gli elementi di continuità, tanto più nella comune discontinuità con la poesia precedente, sono innegabili e di gran lunga prevalenti. La seconda avvertenza riguarda il mio rapporto con la poesia della Szymborska, che – data la mia completa ignoranza del polacco – passa per intero attraverso la traduzione. Le mie considerazioni sono dunque relative a testi poetici tradotti, nel caso specifico, lo sappiamo, quasi per intero da Pietro Marchesani, il cui lavoro devo in ogni senso prendere per buono. Proprio per questo non vedo di buon occhio i casi in cui, com’è accaduto proprio per la Szymborska, l’opera di un autore importante risulta vincolata da una specie di esclusiva di traduzione. Anche al di là della bontà dei risultati e del talento del traduttore, come pure della benemerenza della sua iniziativa e del suo impegno, viene infatti a mancare la possibilità di raffrontare traduzioni diverse e, di conseguenza, di farsi un’idea insieme più complessa e più precisa della poesia originale. La Szymborska che quasi tutti leggiamo, insomma, è una Szymborska-Marchesani. Se penso, per fare solo un esempio, ai tanti e vari modi di tradurre Seamus Heaney, tutti molto riconoscibili e idiosincratici, da parte dei suoi principali traduttori italiani (Buffoni, Mussapi, Fusini, Guerneri, Sacerdoti, Sonzogni), con l’arricchimento reciproco che ne è via via derivato, le cose sembrano stare in modo molto diverso. In ogni caso, le mie impressioni maturate lungo questi anni (e che la traduzione ad opera di Silvano De Fanti delle tredici poesie della raccolta Basta così, postuma sia alla poetessa sia al suo fedele traduttore italiano, non ha modificato) sono quelle di una sostanziale invariabilità della poesia della Szymborska, una volta che questa abbia raggiunto la sua maturità d’espressione (diciamo con Appello allo Yeti del 1957) e, soprattutto, della sua traducibilità, cosa che, visto che si tratta di poesia, di per sé dice già molto. Come accade per tutti i migliori traduttori, anche Marchesani avrà raggiunto risultati ora più ora meno convincenti, ma certo la traduzione funambolica di testi funambolici, per la frequenza delle rime, dei giochi di parole, dei parallelismi e dei rimandi interni (penso ad esempio a Compleanno o a Stupore, entrambi compresi in Ogni caso [OC 309 e 307]), dice comunque di una sensibilità verso lo spessore espressivo e la componente autoreferenziale del linguaggio poetico. Così, al di là di qualche caso sporadico, direi che con la poesia della Szymborska il rischio di un’emorragia di significato dovuta alla traduzione sembra essere ridotto rispetto ad altre poesie e altri poeti. Qualche perplessità nasce anzi e contrario, perché si finisce per chiedersi – questa ovviamente la mia esperienza di lettura – se anche nell’originale sia tutto così limpido e piano, così a posto, così direttamente referenziale. In ogni caso, quanto alla Szymborska, anche dalle poesie postume ciò che ne esce confermato è il prevalere nella sua poesia delle componenti orizzontali, vale a dire colloquiali, discorsive e argomentative, rispetto a quelle verticali. La lingua non ritorna o rifluisce su se stessa – non con decisione, almeno – quanto appare tutta protesa all’esito della dimostrazione come alla propria foce. La funzionalità, la strumentalità del linguaggio poetico prevale di gran lunga sulla sua autonomia; la sua transitività rispetto al contenuto tende a togliere di mezzo, cioè a livellarla come fosse un ostacolo o una diga allo scorrere del senso, ogni possibile intransitività. Discorso, argomentazione, transitività, traducibilità... Proprio come nel tardo Montale.
Per non ripetere il già detto, prenderò a prestito una descrizione sintetica e precisa fatta da Alfonso Berardinelli, vale a dire dal critico che ha forse trovato la consonanza più grande tra il proprio ideale di poesia e la realtà effettiva dei testi della Szymborska:
Qualunque lettore può notare nelle poesie della Szymborska una serie di caratteristiche che, messe insieme, la rendono inconfondibile. Ne elenco alcune: immaginazione sfrenata e occasioni di vita quotidiana; inclinazione umoristica e perfino comica; giochi di parole mai separati da giochi di idee e immagini; una dialettica della composizione che fa incontrare gli opposti e mette l’identico in contraddizione con se stesso; ironia e pathos che nascono l’uno dall’altro; estro e audacia intellettuali che coincidono con la perizia tecnica 1.
E poi ancora la “funzione – sempre secondo Berardinelli – fondamentale e igienica di disintossicare chi legge dalle idee generali che diventano idoli e miti quando noi le facciano esistere al di sopra delle circostanze”, ma anche il “resistere bene, meglio di altri autori, alla rischiosa avventura della traduzione”. A me sembra che tutto questo possa dirsi senza meno dell’ultima stagione di Montale. Come in effetti è stato concordemente ripetuto a cominciare dall’uscita di Satura nel 1971 (le oscillazioni della critica sono state sulla qualità non sui tratti di questa poesia): ironia, contraddizione, reversibilità concettuale, argomentazione, modi discorsivi o colloquiali raggiunti per via metrica, dislocazione continua del punto di vista, piacere della provocazione intellettuale e del paradosso, discorso contro i luoghi comuni, l’inerzia del pensiero, i miti progressivi, e via dicendo. C’è sempre un “rovescio della medaglia” – ricorda Berardinelli, citando la Szymborska, per mettere in luce la natura del suo ammaestramento. Ebbene, l’ultimo Montale è per eccellenza un poeta del rovescio della medaglia. “Il vero e il falso sono il retto e il verso / della stessa medaglia” – scrive in una poesia del Diario del ’71 e del ’72 intitolata Il frullato 2, spingendo magari fino al relativismo (e questa è una differenza) quello che nella Szymborska appare invece come il sentimento di una problematica relatività. Sull’affinità tra le due diverse poesie si deve sicuramente aggiungere altro, a partire dalla pratica comune della diversione, dell’antifrasi, della tautologia, del rovesciamento. Su questi elementi Montale ha costruito per intero la sua ultima stagione poetica, si può dire. Quante sue poesie, proprio come nella Szymborska, si sviluppano rovesciando improvvisamente le constatazioni iniziali, che si rivelano allora come la tesi avversaria attribuibile volta volta all’opinione comune, al sapere scientifico, alla conoscenza filosofica, ai convincimenti politici, alle certezze etiche, ai costumi e ai comportamenti diffusi, alle teorie del momento (sul linguaggio, ad esempio), perfino alla cultura letteraria e in particolare poetica? Un solo esempio tra i più espliciti, la strofa con cui comincia Il primo amore (in Attimo del 2002): “Dicono / che il primo amore è il più importante. / Ciò è molto romantico / ma non fa al mio caso” [A 591]. Anche dal punto di vista tematico, poi, quante volte Montale fa cozzare non più, come in passato, l’aulico con il prosaico, ma, cosa che ancora una volta si deve dire della Szymborska, il cosmico con il quotidiano, la dimensione metafisica con l’esistenza ordinaria, l’irregolare con il comune, la differenza con l’indifferenziato, l’individuo singolo con il grande numero? Quante volte con un procedimento che va e viene di continuo tra particolare e universale, tra individualità e generalizzazione, Montale e la Szymborska, magari con fare sornione (lui) o danzando in punta di piedi (lei), legiferano – perché di questo si tratta – riguardo al tempo, alla Storia e alla storia, al progresso o al regresso, al bene e al male, alla fine e all’inizio, alla vita quotidiana, alla civiltà degli uomini, alla natura e ai suoi ritmi? “Come tutti i poeti veri, Montale non è uno scienziato. Non manda messaggi, ma scopre e legifera” – ha detto bene Cesare Garboli a proposito del Quaderno di quattro anni. Che si tratti di celebrare ciò che è particolare e irripetibile oppure ciò che è patrimonio (o viceversa fardello) della specie, che si tratti di dichiarare la reversibilità del tempo, le prospettive unilaterali, i pregiudizi, il carattere arbitrario dei fondamenti epistemologici condivisi, l’imprevedibilità dell’esistenza o invece l’inflessibilità della sue leggi, comune a entrambi è un procedimento di assolutizzazione dell’esperienza, non soltanto personale. Se usano la lente d’ingrandimento è comunque per distaccarsi e prendere le misure del fenomeno, cioè per riportare il particolare alla legge, fosse anche, come spesso accade, alla legge della particolarità. Procedono non a caso per esempi e per esemplarità (quanti elenchi nelle loro poesie, specie nella Szymborska), mettendo a tema, sempre con l’intenzione di traguardare il caso singolo su un livello di conoscenza più ampio, antropologico- filosofico, universale. Tirano le somme estraendo dall’evento determinato una morale. Alla constatazione segue la concettualizzazione, infallibilmente. Dunque non rimangono all’interno del fatto, ma ne escono per rivelarne il codice, il DNA di carattere appunto morale. Di qui la predilezione per l’apologo, il raccontino filosofico a carattere dimostrativo, le clausole gnomiche, i procedimenti epigrammatici o anaforici. Il tono fondamentale, e nella Szymborska anche più che in Montale, è di carattere sintetico, esplicativo e didascalico, saggistico. Non è il contatto con le cose o con la materia del mondo a improntare la forma espressiva, bensì, che è diverso, il pensiero sulle cose e sul mondo. Un titolo come Visto dall’alto [GN 355] di Grande numero (1976) o ancor più come Un tale che osservo da un po’ di tempo, la prima poesia di Basta così [BC 11], credo illustri alla perfezione il suo fare poetico. E proprio Visto dall’alto si conclude in questo modo (avrei potuto citare anche Coercizione [BC 25-26], una poesia di Basta così che dice le stesse cose):
E così questo scarabeo morto sul viottolo brilla non compianto verso il sole. Basta pensarci per la durata di uno sguardo: sembra che non gli sia accaduto nulla d’importante. L’importante, pare, riguarda noi. Solo la nostra vita, solo la nostra morte, una morte che gode d’una forzata precedenza. [GN 355]
Sembra una replica di quanto Montale, con uno stesso punto interrogativo posto sull’antropocentrismo, aveva scritto solo qualche anno prima in una poesia del Diario del ’71 e del ’72, l’epigramma Il dottor Schweitzer:
gettava pesci vivi a pellicani famelici. Sono vita anche i pesci fu rilevato, ma di gerarchia inferiore.
A quale gerarchia apparteniamo noi e in quali fauci...? Qui tacque il teologo e si asciugò il sudore 3.
Il fatto è che sotto molti punti di vista – strutturali, di visione della realtà: senso (in realtà non senso) della storia, sorti (non) magnifiche e (non) progressive, rapporto tra la particella uomo e il cosmo, origine e fine della vita, provenienza e destinazione dell’uomo, casualità della vita umana – i due la pensano in modo sorprendentemente simile. Quando il vecchio poeta non fa dell’amarezza un pregiudizio negativo e quando la Szymborska non fa scivolare l’umana comprensione in un di più di benevolenza se non di bontà, lo si può riscontrare con molta evidenza. Così, ad esempio, riguardo al carattere nient’affatto naturale ma arbitrario delle gerarchie di sopra e sotto, di prima e dopo. Ai tanti testi che equivocano tra precedenze, funzioni e probabilità scritti da Montale (uno per tutti: Ci si rivede mi disse qualcuno)4 si potrebbe affiancare quell’altrettanto disorientante gioco di specchi tra al di qua e al di là che la Szymborska mette in scena in Calcolo elegiaco [FI 519-521], oppure l’alternativa tra la necessità e la casualità del disegno universale raccontata in Forse tutto questo, un’alternativa in realtà equivalente a un nulla di fatto tra opzioni opposte che si disattivano a vicenda:
Forse tutto questo avviene in un laboratorio? […]
Forse siamo generazioni sperimentali? […]
O forse è altrimenti: nessun intervento? I cambiamenti avvengono da sé in conformità al piano? […]
O forse è il contrario: là piacciono le piccole cose? […]
Avvertite il Capo, che venga a vedere di persona! [FI 543-544]
(come non pesare ai tanti demiurghi, numi e divinità, con le relative sottospecie, ai tanti architetti e progettisti e scribi di Montale da Satura in poi?). Così è anche per la scollatura tra l’avanzamento scientifico o tecnologico e la dimensione di felicità dell’uomo, un autentico Leitmotiv tardo montaliano che la Szymborska nei suoi versi declina più e più volte (in Eccesso: “Hanno scoperto una nuova stella, / ma non vuol dire che vi sia più luce / e qualche cosa che prima mancava” [GP 415]). E lo stesso vale per lo scetticismo verso tutti i miti progressivi, tanto più nella forma del materialismo dialettico (tertium non datur, vale per entrambi), in favore di una particolare specie di immanentismo dualistico. Come nella Vita breve dei nostri antenati:
quando il male trionfa, il bene si cela; quando il bene si mostra, il male si acquatta. Nessuno dei due si lascia vincere o allontanare a una distanza definitiva. Ecco il perché d’una gioia sempre tinta di terrore, d’una disperazione mai disgiunta da tacita speranza. La vita, per quanto lunga, sarà sempre breve. Troppo breve per aggiungere qualcosa. [GP 443].
Com’è duro a ben guardare il fondamento storico-filosofico su cui fioriscono le poesie della Szymborska... Quando parliamo del suo sorriso, o meglio del volto mai definitivamente rabbuiato dei suoi versi, dovremmo tenere in mente allora quanto scrive in Sorrisi, la cui strofa ultima suona così:
Un’umanità fraterna, dicono i sognatori, trasformerà la terra nel paese del sorriso. Ho qualche dubbio. Gli statisti, se fosse vero, non dovrebbero sorridere il giorno intero. Solo a volte: perché è primavera, tanti i fiori, non c’è fretta alcuna, né tensione in viso. Gli esseri umani sono tristi per natura. È quanto mi aspetto, e non è poi così dura. [GN 361]
Dei due sembra perfino essere Montale il più possibilista, o comunque il più nostalgico di un ordine verificabile, di un assetto di realtà meno fluido, confuso, senza capo né coda, ossia non direzionato. Spesso, del resto, è proprio questa nostalgia un po’ esistenziale e un po’ metafisica a dettargli le poesie o i movimenti più belli, a mio vedere piuttosto unici, in cui apparentemente senza appoggi visibili il suo italiano risulta insieme semplice e preciso, diretto, privo di schermature “poetiche”, disinvolto eppure straordinariamente intonato, come se Montale fosse riuscito a impiegare nel migliore dei modi non una lingua poetica (come Giudici, ad esempio) ma l’italiano di tutti. Una lingua che non deve necessariamente essere lirica per farsi un conduttore d’intensità, né prevedibilmente prosastica per essere capace di raccontare, quasi riuscisse a non uscire mai dai binari pur parlando di tutto. Se questo suo, com’è stato tante volte ripetuto, è sostanzialmente un italiano medio, si deve allora riconoscere che questa (sua?) lingua comune (uno dei concetti più spinosi che attraversino il campo poetico) possiede un equilibrio e un’eleganza che sorprendono. Viceversa, nella Szymborska è proprio il taglio o comunque la sospensione del prima e del dopo, della sorgente e della foce a imprimere alla poesia e quasi a giustificare il modo che più le è proprio. “Animuccia, solo dubitando dell’aldilà / prospettive più ampie potrai avere”, così si conclude Sullo Stige [GN 403]. Se la fine e l’inizio sono sospesi, se vengono comunque riportati al qui ed ora del passaggio – dell’uomo, di un uomo – sulla terra, allora non resta che l’attimo. Dapprima svilito dalla perdita di immissari ed emissari, l’attimo-vita ne esce nobilitato come quello in cui tutto si decide. Certo, detto così risulta tutto troppo lineare, sillogistico quasi, quando è vero invece che in questo genere di cose non esiste nulla di consequenziale e di meccanico, di giustificabile per sola via logica. La cospirazione negativa di storia e visione cosmica o, con un aggettivo che è suo, «siderale», potevano favorire allo stesso modo una risposta (tanto più poetica) completamente diversa. Così, va preso come un semplice dato di fatto che la necessità e la volontà di essere poeta della Szymborska siano state di tale natura: di esserlo cioè attraverso una poesia positiva (non saprei definirla diversamente); o comunque – visto che ogni poesia che si rispetti porta sempre con sé una fortezza e una positività come rispondenza intrinseca tra la forma e il contenuto (Leopardi docet, anche per questa via) – o comunque, dicevo, con una poesia in cui la virtù positiva fosse anche dichiaratamente affermativa, fosse insegnamento o suggerimento morale, consiglio pratico, esperienza di vita che passa da una persona a un’altra. Proprio come un piccolo bene che si possa prelevare dalla pagina per ricondurlo dritto dritto alla propria esistenza. La vita come un imparare a vivere – quello che la Szymborska ha deciso di passare (la sua risposta poetica è appunto questa) è una certa possibilità di vedere se stessi nella propria vita con la speranza di viverla meglio. Speranza – una parola capitale, sì; ma non speranza di pienezza, totalità, redenzione, salvezza, quanto d’illuminare e giustificare il proprio – cioè il nostro – attimo. Se allora, come ha scritto Berardinelli, e credo giustamente, la poesia della Szymborska appare “inconfondibile”, questo è dovuto non solo e forse addirittura non tanto a un particolare assetto stilistico e dell’organizzazione retorica, o a una presunta originalità dei temi e dei motivi, quanto all’intreccio di tutti questi elementi con l’orientamento complessivo, questo sì suo peculiare, del discorso poetico. Spero che questo mio ricorso non appaia troppo pretestuoso, ma se si pensa di nuovo al tardo Montale le rispettive poesie appaiono come due territori in cui procedure ed elementi anche molto simili vengono orientati in modi differenti, come due campi di grano piegati dal vento in direzioni anche molto diverse, talora opposte. Avendo in mente anche l’idea di inclinazione della poesia di Paul Celan, direi allora che l’elemento distintivo si trova nel particolare timbro, nella disposizione e, appunto, nell’inclinazione o nell’orientamento della voce poetica. A me pare insomma che il lettore sia colpito, che avverta come originale non tanto quello che la Szymborska dice, e neppure il modo in cui lo dice, ma, fermo restando che questi elementi sono tutti vicendevolmente implicati, nel tono con cui lo dice. La cosa appare tanto più evidente quanto più, come tante volte accade, questa poesia si fa carico della res gravis dell’umano destino: la violenza, la paura, l’ingiustizia, la mortalità. Così, se si pensa a quella che Roland Barthes chiamava la grana della voce, oppure se si estende l’idea del colore delle vocali di Rimbaud all’intero spettro espressivo, mi sembra che per la Szymborska si debba parlare di lucentezza, brillantezza, presenza di spirito, ilarità, smalto, benevolenza, complicità, comprensione. E proprio la complicità con i suoi versi non si stabilisce solo sul piano dell’intelligenza e dei suoi raggiungimenti (il fosforo che come una polvere luccicante trascorre nella sua poesia), quanto, prima ancora, sul riconoscimento del fatto che si è tutti sulla stessa barca, che comune è l’impegno per meglio comprendere e meglio vivere la propria vita. Estremizzando un po’ e, in ogni caso, senza che questo importi un giudizio di valore favorevole all’uno o all’altra, si può dire che quella dell’ultimo Montale sia la poesia di qualcuno che tenta di sopravvivere, mentre il qualcuno che parla e per cui si parla nei versi della Szymborska cerca ancora di vivere. Montale, del resto, concepisce dichiaratamente la sua ultima come una poesia postuma, di ripiegamento (e di ripiego) rispetto a una battaglia che si è già persa e che, di conseguenza, non ha più senso combattere. Non a caso i suoi estimatori si sono spesso sentiti in dovere di sottolineare comunque la positività, l’energia residue depositate anche in questa poesia attraverso un’audace, perfino perversa strategia che adotta la stessa tattica del nemico per aggirarlo o impedirgli di centrare il bersaglio. Ricordo solo, uno per tutti, Zanzotto e il suo scritto La freccia dei Diari. Con la Szymborska accade semmai il contrario: ci si sente chiamati a rendere ragione, a giustificare l’inclinazione positiva della sua poesia. Perfino a lei è accaduto di farlo. C’è questo passaggio di una conversazione della Szymborska dell’inizio del 1997 che mi ha subito colpito:
Mi sono resa conto che tutta questa mia storia appare priva di drammaticità. Come la vita di una farfalla, come se dalla vita avessi ricevuto solo carezze. Questo è il mio ritratto esteriore. Ma come si spiega questa immagine? Sono davvero così? Ho avuto in effetti una vita felice, benché abbia anche conosciuto molta morte, molti momenti di disperazione. Ma io, naturalmente, non voglio parlare delle cose personali, né mi piacerebbe che ne parlassero gli altri. Dopo la mia morte sarà diverso. Alla gente mostro una determinata faccia, per questo mi rappresentano sotto il profilo aneddotico, come una persona allegra, una che non fa altro che inventare giochi e divertimenti. È colpa mia se gli altri mi vedono così. Ho lavorato molto a questa immagine. Quando sono depressa, quando ho gravi preoccupazioni, me ne sto chiusa in casa per non dover mostrare un volto cupo5.
La Szymborska sta parlando o sembra parlare anzitutto sul piano esistenziale: il volto di noi stessi che si porge agli altri; eppure a me sembra una descrizione più eloquente di ogni sua esplicita dichiarazione di poetica. Il “ritratto” a cui fa riferimento può essere in tutto e per tutto anche il suo ritratto poetico, insomma. Ma se è così, si è costretti a ripeterlo: “Come si spiega questa immagine?”. Al riguardo credo che si possa parlare della celeberrima gioia della sua poesia soltanto come una costruzione della gioia, con tutto ciò che questo comporta: la conoscenza del male, della violenza, dell’oscurità, del dolore, del vuoto, della vanità, della “morte” (la parola che usa è proprio questa), eppure la scelta, la volontà, la decisione, perché esattamente di questo si tratta, di scrivere poesia solo in un certo modo, cioè offrendo ogni volta la possibilità di un controcanto che sia anche una contromisura, di una voce che sia di per sé un antidoto, una finestra non sul buio ma sulla luce. La Szymborska riconosce come proprio tratto distintivo, direi quasi come la propria essenza la capacità di non farsi immobilizzare nel pregiudizio negativo sul mondo. “Potevo essere me stessa – ma senza stupore, / e ciò vorrebbe dire / qualcuno di totalmente diverso” [Nella moltitudine, A 569]. Ma poi bisogna subito dire che questa voce che sta dalla parte della vita costituisce tutt’altro che un partito preso, bensì una conquista che deve essere sempre rinnovata per via d’esperienza e di comprensione. Il rito quotidiano sta nel riuscire a ripetere, nel riconquistare ogni giorno quanto si afferma in La realtà esige: “Questo orribile mondo non è privo di grazie, / non è senza mattini / per cui valga la pena svegliarsi.” [FI 511]. Se il male è gratuito, non lo è però il bene, che va sempre giustificato e riscattato. Parlare di una vocazione alla gioia della Szymborska, mi sembrerebbe pertanto improprio. C’è il senso di una elezione, invece. “Preferisco prendere in considerazione perfino la possibilità / che l’essere abbia una sua ragione” – così si chiude Possibilità [GP 481]. L’attimo di felicità, tanto più, ancora con le sue parole, una “vita felice”, si devono costruire, esattamente come quelle architetture meditatissime che sono le sue poesie. Le une come le altre sono infatti, credo lo si possa dire, un di più. Tutto questo si è realizzato in una ben definita strategia espressiva, in una particolare inclinazione del senso, in una fisionomia poetica che assieme a tanti acquisti ha comportato anche qualche perdita. Forse era inevitabile, forse era il prezzo da pagare per offrire una poesia che fosse ogni volta una piccola festa, un anche minimo attestato di salute esistenziale e antropologica (la Szymborska è tornata più volte sull’idea di poesia come festa; ricordo solo il passaggio che segue: “Non ogni poesia può rapire come un tempo L’ode alla giovinezza [di Adam Mickiewicz N.d.R.]), ma ciascuna deve costituire una sorpresa. Definirla ‘corretta’, ‘normale’, ‘comune’ la squalifica immediatamente. […] essa non nasce mai per tutti i giorni, ma solo per la festa, è frutto d’una condizione d’eccezionalità, un caso fortunato.” [PL 29-30]. A questa prospettiva di felicità ha sacrificato tutto. Credo perfino la possibilità di esercitare appieno le sue doti di sensibilità per la lingua e di vedersi diversamente, forse più personalisticamente ripagata. Nemica del buio assoluto, della negatività senza ritorno, dei buchi neri del senso, la Szymborska non poteva lasciar risuonare indefinitamente la lingua, consentire alle parole di andarsene troppo lontano per conto proprio. Il distacco, il controllo dell’esperienza nel linguaggio e attraverso il linguaggio rappresentano la condizione stessa della sua poesia. Anche nei momenti apparentemente più discordanti questa non parla con ambiguità ma parla dell’ambiguità; non lascia che il senso si sfilacci indebitamente, ma consente che vada lontano per farsi trasportare essa stessa più lontano ancora. Tendenzialmente rifugge da una lingua impermeabile, una lingua ostacolo che non si faccia veicolo per il trasporto, l’uso e la liberazione del senso. Se si pensa all’idea di governo della lingua di Heaney, con genitivo insieme soggettivo e oggettivo, direi che nella Szymborska prevale senz’altro il significato oggettivo (la lingua che viene governata dal poeta) rispetto a quello soggettivo (la lingua che prende in mano direttamente il timone del dire). Fermo restando che, trattandosi di un vero poeta (e quale poeta), le due possibilità devono comunque essere attive entrambe, e nello stesso momento. Quel tanto di meccanico, di prevedibile o di geometrico che possiede il suo procedimento poetico – tanto più con l’avanzare del tempo si stabilizza un tipo abbastanza fisso di esibizione dei dati o dei reperti in causa, a cui fa seguito la dimostrazione poetica – credo che derivi comunque di qui, dal non voler lasciarsi dominare dalla materia, dall’informe, dall’indeterminazione del senso. Per la poetessa che tiene in braccio lo scimpanzé come fosse il proprio fratello, mi sembra che l’unica idea di civiltà pensabile-possibile abbia a che vedere proprio con questo. La Szymborska affonda la testa nell’acqua, ma la poesia – quella piccola “festa”, quel piccolo trionfo della vitalità che una poesia dovrebbe essere – coincide per lei con la risalita. Nelle sue mani la poesia è molto meno una sonda per toccare l’ignoto che uno strumento per chiarificarlo ed averne ragione. Così non si affida alla lingua – questa la mia impressione da semplice lettore delle sue traduzioni – come qualcosa che la possa davvero sorprendere o spaventare, come qualcosa, ancora, che la possa condurre là dove non intendeva andare. Per questo difetta forse di mistero. Non si tratta però di un limite, ma di un modo di scrivere. In un passaggio che ritengo cruciale di Disattenzione, scrive: “Il mondo avrebbe potuto essere preso per un mondo folle / e io l’ho preso solo per uso ordinario” [DP 671]. Ecco, credo che la prima virtù per un uso non ordinario della poesia, per la Szymborska abbia coinciso con la possibilità di una sua ricaduta effettiva sulla vita, o meglio, per un uso non ordinario della vita stessa. Mappe, uno dei testi raccolti in Basta così, sembra dire qualcosa che potrebbe valere per la sua stessa poesia. Dopo avere detto della propria congenialità con le mappe (“Segnalano le selve alcuni alberelli / tra i quali è ben difficile smarrirsi”), così la Szymborska conclude:
Amo le mappe perché dicono bugie. Perché sbarrano il passo a verità aggressive. Perché con indulgenza e buonumore sul tavolo mi dispiegano un mondo che non è di questo mondo. [BC 45]
La sua poesia non è certo questo, a meno che non ci si riferisca al carattere ideale e in quanto tale anche utopico insito in ogni configurazione poetica che si rispetti (Auden, come quasi sempre gli capita, ha detto le cose forse più intelligenti su questo punto). Diciamo piuttosto che la mappatura e dunque, via via, l’organizzazione logica e concettuale, la misurazione, il disegno, la messa in quadro, la piallatura dei bozzoli e dei grumi irredimibili della realtà costituiscono l’onore di questa poesia ma anche il muro contro cui rischia di scontrarsi: le asprezze e gli scoscendimenti, le oscurità, i viluppi e i precipizi selvosi che vengono messi in piano, il discorso poetico che scivola nella cartografia della vita. Ma è questo, lo ripeto, il modo che la Szymborska si è data di essere poeta. Italo Calvino, non a caso il più razionalista e illuminista dei nostri scrittori, parlava della sfida del labirinto. Ma è vero che riducendo il labirinto alla mappa, il labirinto, cioè la realtà, o almeno una parte di essa, subito muore. Quando si scrive Hic sunt leones, i leoni non ci sono già più. Credo che la Szymborska lo sapesse benissimo, sia perché si tratta della stessa posta in gioco, redenzione e condanna insieme, di qualsiasi procedimento di configurazione formale, sia perché è esattamente quello che dice, meglio ancora, che rappresenta in Labirinto, una poesia di Due punti che io personalmente amo di più in assoluto (mi sembra infatti che qui abbia superato se stessa in ogni senso); e che così si conclude, fissando il labirinto e insieme lasciando tutto paradossalmente aperto, in sospeso:
Deve pur esserci un’uscita, è più che certo. Ma non tu la cerchi, è lei che ti cerca, è lei fin dall’inizio che ti insegue, e il labirinto altro non è se non la tua, finché è possibile, la tua, finché è tua, fuga, fuga – [DP 669]
Da che parte siamo? Del labirinto o della mappa, della realtà o della poesia? Per saperlo non ci resta che rileggerla. Mi correggo: non ci resta che tornare alla vita. A meno che, come l’opera tutta della Szymborska sembra indicare, non ci siamo in mezzo, e che proprio quello sia il nostro luogo più proprio. Tra il labirinto e la mappa, tra la vita e la poesia, così come tra la fine e l’inizio, tra l’inizio e la fine. Sì, ma intanto, come dice il principe Amleto, l’intervallo (noi diremo: l’attimo) è mio.
1 A. Berardinelli, Wisława Szymborska in Italia: perché ci mancava, alle pp. 87-91 di questo stesso volume. 2 E. Montale, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Einaudi, Torino, 1980, p. 443. 3 Ibidem, p. 450. 4 Ibidem, p. 602. (Ci si rivede mi disse qualcuno / prima di infilarsi nell'aldilà. / Ma di costui non rammento niente / che faccia riconoscerne l'identità. / Laggiù/lassù non ci saranno tessere / di riconoscimento, non discorsi opinioni / appuntamenti o altrettante futilità. / Lassù/laggiù nemmeno troveremo / il Nulla e non è poco. Non avremo / né l'etere né il fuoco. [ndr]) 5 Cit. in A. Bikont, J. Szczęsna, Cianfrusaglie del passato. La vita di Wisława Szymborska, Adelphi, Milano, 2015, pp. 15-16.
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