Mercoledì, 9 marzo 2016
Marco Ceriani - Gianmorte violinista - Ed. Stampa 2009, La collana, 2014
Uomo avvisato mezzo salvato, si diceva da ragazzi, con la mano tesa
minacciosamente in avanti. In altre parole: non dire che non ti avevo
avvertito, se persisti sono cazzi tuoi.
La situazione è più o meno questa, quando si prende in mano un libro di
Marco Ceriani, azione che non è mai un caso, un piluccare da libreria,
ma un atto di volontà (e forse anche di rappresentazione, vai a
sapere). Ma l'avvertimento è necessario, tant'è che la nota d'apertura
di M.C. (che, tiro ad indovinare, è lo stesso Ceriani) ci parla - tra
ironia e consapevolezza delle proprie capacità - di "oggetti-testo nati
dalla concrezione di più elementi, e che danno in questo modo alla sua
pagina una serie apertissima di sfaccettature, chiamando il lettore a
una perlustrazione accanita, e, in effetti, ardua quanto molto speciale e in ogni caso ben remunerativa" (corsivo mio).
All'altro capo del libro c'è il saggio di Rodolfo Zucco, indispensabile
quanto raramente lo è stata una postfazione, che all'inizio ci rende
conto brevemente del fallimento, in un suo primo approccio a Ceriani, di
ridurre questa poesia ai più miti consigli di una parafrasi,
perchè sostanzialmente impossibile e in definitiva inutile, con
conseguente insorgere di un problema (forse falso, forse inesistente) di
oscurità (una questione, quella di oscurità antiparafrastica
che, aggiungo incidentalmente, non riguarda certamente solo Ceriani,
penso ad es. a Augusto Blotto. v. QUI,
che però lavora su di un piano più strettamente linguistico). Poi,
attraverso colti rimandi a vari autori (Viviani, Barbieri, Geninasca)
Zucco giunge quanto meno alla convinzione (o alle ipotesi di lavoro) che
la scrittura di Ceriani costituisca una sfida di diverso tipo. Per
prima cosa, una assunzione di responsabilità da parte del lettore nel
riconoscere: a) uno statuto alla poesia "incomprensibile", dato che (la
faccio breve) oggetto della poesia è proprio ciò che non può essere
rappresentato, l'irrappresentabile (Viviani, e aggiungo che mi
pare che si intenda qualcosa che va oltre il potere connotativo e
polisemico da sempre attribuito alla poesia); b) una necessità di andare
oltre (ammesso che ci sia da parte del lettore - e lì si torna - una volontà), passando da una una prensione molare
(Geninasca, c'est à dire una ricezione del testo basata su un codice
comune, condiviso, di sapere diffuso, in varia misura "sociale") a
quella semantica, ovvero che travalica la comunicazione
diretta, utilitaristica e informativa, per puntare ad un significato
"esteso", virtuale, potremmo dire surmetaforico, senza alternative di
senso semplicistiche (e quindi parafrasabili), un po' come avviene con
la musica, dove vige un sistema di attese, una aspettativa del
(probabile) suono successivo, che può essere soddisfatta o meno (o "a
inganno", aggiungerei). Paradossalmente, dice Zucco citando Daniele
Barbieri, è proprio sgombrando in maniera irrevocabile il campo
dall'equivoco che con i dovuti mezzi e il dovuto sforzo poi alla fine
questa "difficoltà" sia superabile, che questa poesia "semplifica le
cose". Aggiunge Zucco: "incoraggio il lettore ad abbandonarsi a questa
"semplicità" (...) assecondando il sistema di attese - soddisfatte o
irrisolte - che fondano questo specifico sistema stilistico. Ciò
richiedera tempo e dedizione...". Zucco dice altre cose interessanti, ma
resta consapevole di dover riportare sempre "risultati parziali" in
questo accostamento a Ceriani, forieri di ulteriori domande.
Bene, raramente un libro di poesie ha avuto così tanti warnings, così
tanti cartelli con su scritto attento alla testa. Che però
inevitabilmente e contemporaneamente non possono che certificare
l'impossibilità di aggirare l'ostacolo. Hier ist die Rose, hier tanze.
Tutto ciò detto, al lettore avvisato, munito della sua valigetta
culturale di cartone legata con lo spago, non resta che addentrarsi
nella selva testuale. Si tratta in sostanza, provare per credere, di
accettare l'annegamento, allentare una naturale resistenza che viene dal
cervello nel tentativo di ricomporre un senso che non può essere il
suo, dato che è cifrato con una chiave che possiede solo l'autore, una
chiave "privata" per dirla in termini informatici, fruibile (o godibile)
in maniera altrettanto privata, come "qualcosa di personale" (è il
titolo del saggio di Zucco). Il panorama complessivo di qualcosa di
familiare (anche a livello retinico, dice Zucco usando un termine
duchampiano) aiuta solo fino ad un certo punto. Il libro infatti
esibisce principalmente una forma nota poiché, come scrive Ceriani nelle
note, "la 'risacca' che stampò questa piccola 'bibbia
pregutemberghiana' fu incurvata sui sonetti", un sonetto variamente
articolato, come dimostra Anna Bellato sul n. 16 de "L'Ulisse" (citata
da Zucco, reperibile QUI).
Qui sorge una delle domande "ulteriori" a cui accennavo prima (quoto
Zucco): "E' da riconoscere, nella pratica del sonetto, un dato
oppositivo rispetto all'uso della lingua?". In altre parole un ossimoro
patente, qualcosa che punta in opposte direzioni (apparentemente),
qualcosa di riconoscibile che contiene qualcosa (tornando a Viviani) di irrappresentabile?
Be', se ho capito bene la domanda di Zucco a me pare di sì, a me pare
quanto meno che il metro e la forma classicheggianti, che in genere
assumono una tonalità "comica"o melò, qui abbiano una funzione poetica,
nel senso che Jakobson attribuisce a questa definizione, ovvero passano
il compito di comunicare al ritmo, alla musica, alla rima, qualcosa che
accarezza la mente mentre le parole ce la percuotono accuratamente di
molti e diversi stimoli. Mentre la forma "conduce verso", la lingua
"diverte", nel senso etimologico richiamato da Zucco, devia, crea una
distorsione, uno scarto, un conflitto o corto, in maniera decisamente
antifrastica. Qui la rima tuttavia, insieme ad altri marchingegni, va
considerata in sinergia con la pienezza semantica del verso, annota il
nostro commentatore, secondo due vettori di senso, quello appunto
orizzontale e quello verticale a cui siamo stati educati dalla
tradizione. Mi pare di poter aggiungere (ma si tratta anche per me di
poco più di un appunto) che il singolo testo quasi mai è bastante a sé
stesso, perché molti dei significanti trasbordano per varie ragioni e
con varie modalità al testo seguente (spesso), o precipitano
verticalmente all'interno dello stesso testo, a volte con un morfismo
che dubito che sia attribuibile solo a una "normale" associazione di
idee, poiché non avviene come "traduzione" lineare ma con una torsione,
una manipolazione anche ironica del conseguente che metterebbe a dura
prova anche chi delle associazioni ha fatto una base scientifica di
interpretazione (a partire almeno da Stuart Mill). Può capitare, tanto
per fare un esempio, di trovare "catene" come Chopina > houslista
(violinista, in ceco) > istromento > gravicembalo > laticlavio
> Das wohltemperierte Klavier > Témpralo! (pag. 14), con uno "sbocco" nel testo seguente (pag. 15) in Clara Wieck (pianista, moglie di Schumann) > laticlavio > clavecin (clavicembalo, in francese). Clara si ritrova poi nel testo seguente. O si può incontrare a pag. 17 una Omeopàtra che "slitta" a pag. 18 in un Antonio > mastrantonio > mastrottavio (e ritorna laticlavio).
Esempi tutto sommato banali , ma che danno l'idea del lavoro (enorme)
che sarebbe possibile fare, in una sede che non sia un semplice post,
rispetto alla complessità di questo libro, lavoro anche di competenza
linguistica, dati i numerosi inserti di diversi idiomi. Come diceva
proprio Jacques Geninasca in una intervista, poi alla fine un senso deve
pur esserci, si tratterebbe solo di trovarlo. Certo farsi
capire, almeno in senso stretto, non è lo scopo principale di Ceriani,
una mente che non si accontenta. Basti considerare i testi che
compongono la IV sezione del libro, scritti in "una delle tante varianti
'barbariche' dell'Alto milanese" e del tutto privi della consueta
versione in lingua di accompagnamento. Un'altra "attesa" disillusa, ma
Ceriani anche qui ci avverte che "esso [dialetto] non tollera che lo si
rassegni o versi, con quelle sue ceneri callidamente vermiglie o
arcigne, nelle esanimi urne dell'italiano". E io gli credo, mentre mi
chiedo, leggendolo, se tra i suoi "avi" non figuri anche Carlo Emilio
Gadda, uno di cui Emilio Cecchi scrisse "invece che in una lettura che, a
così esprimerci, procedendo da sinistra verso destra, rigo per rigo,
sdipani e segua la causalità degli avvenimenti, si direbbe che [...]
vada esplorato pagina per pagina, secondo una lettura verticale, come
quella d’una partitura d’orchestra, dove si inscrive prospetticamente il
legame e l’implicazione delle singole voci e degli strumenti, nella
risultante di una foltissima polifonia". Già, chissà, il pastiche, le enumerazioni, le copie lessicali, la "disarmonia prestabilita"...
Mi rimane il dubbio, per concludere, che una delle chiavi di
interpretazione, se vogliamo ostinarci a trovarne una, potrebbe essere
quella della produzione - da parte di Ceriani - di una tentacolare
metafora di tipo cognitivo (Lakoff e altri), una mappatura culturale
dell'esperienza propria che l'autore sovrappone per mezzo del linguaggio
"privato", del suo codice, del suo dominio, al dominio della realtà,
per quanto irrappresentabile essa possa essere, ma considerata come uno spazio impressivo, per usare ancora un concetto geninaschiano, qualcosa di estetico, pre-logico, anche ludico (e quindi ironico).
In attesa di capirne di più, rimaniamo intanto al consiglio di Ceriani:
"per quel che già s'è detto, conta alla fine più del lauto boccone la
briciola, la briscola più che la picca". (g. cerrai)
Turingia o Turenna che se a Sparta rintocca
L'Angelus e ad Atene una pellagra di nòttole
Gorgheggia al climaterio invece dell'aspide
Per l'otite il sordo a chi gli mormora frottole
All'orecchio non senta colei che mostra la ràgade
All'ano, c'è caso, per mascherare quella che ha in bocca?
Oh la rosa pari all'alpe
Ch'a dieci punte decacùminasi
Com' a Dante cento scarpe
Per l'Appennintontimorùmenasi ------
LA MORTE
È della foresta serqua... di foglia ahi [fuggiasca]
Eco strabevuta dalla feccia all'orlo
Della coppa che va di palo in fra [sca]
Acre come un brivido dal contorno
Che sa il disegno dal manto e dalla tasca
Secondo dell'uno il peltro e il tuorlo
Secondo l'altra è morte che va dal falasco
Come capra brucante seme per riporlo
Al greppo in falsopiano
Che suggella l'alta algebra
Parvente che sia mano
O vagina della palpebra
Che col manto aguzzo
Spogliato dalla làtebra
Risponde al glabro ruzzo
Del pioppo con la cattedra
Della quercia, questa parabola...
Che ti dicono come al canto del gallo
intristisca la vera rondine candida
mentre la nera con un'intravena da sballo
si fa marescialla in orto se Gesù si ricandida
come in una sciarada fuggiasca un filotto
di sputi in un fazzoletto del colore dei cigni
più oscuro che al palio il paliotto
delibera che a esser deriso dai non sunt digni
ulivi dalla pagina sottana in peluria
mentre la soprana è lucente se glabra
solo agli stretti dì dell'incuria
consumati alla mensa scervellata di Sabra
e Chatila, quando agli stretti dì di quaresima
Gesù parteggia per il pane e Cristo per il vin che millesima...
Non sul marciapiede va la pagella
dei veleni a cui miste mésconsi
vipere con l'infingarda gabella
più fioca del papiro che in eco si
fa rotolo di augusto Ossirinco
su cui struscia la schiena di spire
una vipera che al bancone di zinco
succhia da una cannuccia le birre
rischiarate dall'incendio di Troia
in una tribuna celata dall'erica
di legno di tiglio che il palissandro
[ancona scorpioide che a inveir l'antro]
nega solo se vi fruscia la predica
di Priamo che versa sopra la stuoia
una fiala come se Simoenta e Scamandro...
[dessero di cozzo con la pala del cancro]
Quando alla grata del confessionale
s'impiglian certe primule ischemiche
la calza del prete si fa tutt'un'ala
col resto della veste a domeniche
perse nel piscio del confessionale
dove creman la parola ed il tendine
a un unico forno longitudinale
della morte che sommessa ci léndina
col pidocchio che sott'unghia sott'ala
risponde col peculato ai scenici
ozi del teatro andante così uguale
al suo marchingegno come Prosseno
con la messe ascosa nel parietale
che [scambia], la mercé sue puttane, in arsenico...
Forse al balivo in cavalcatura
palio di seta la sella che scricchia
forse esgomenta dell'impostura
la rondine aguzza va giù che picchia
al mesto avello di vigne che scure
colline, alla bótte che mazzapicchia
la doga con questue in così impure
borse di voci a ventesimi e a cicche
che l'eucarestiario spezza in paure...
Pettiross'anzi rovista tra i chicchi
sentendo la rondine che tra la lue
e lo sperma agognante il becco ficca
a nido a avanotti se d'essi tra due
chi tra la nuca smeralda e l'albiccia
sceglie col rostro per mera ripicca
quando la povera va dalla ricca
uno che incudine querela all'incùe...
La foglia d'oro, oh gimnestra ò veseva,
della lava al vulcano da due bocche
quello da una soltanto prometteva
da aquila che una gonna con due socche
[scambiava con le tasche messe a destra]
che il fegato di Prometeo mesceva
all'inguine le risultanze sciocche
della rondine che al falco moglie va
cagliando panna a panno nelle brocche
l'inchiostro per un latte se le borchie
la spilla da balia oh colei non deva
macchiandosi alle dita come ai torchi
delle rose una Clitemnestra argeva
a palazzo ambir ove bofonchia morchia
di mestruo che nell'anfora raggela...
E che le mestrue come pagaie di
canoa rispondan con prezzemolo e sputo
all'arterioso collegio di naiadi
che colmeranno la fossa col buco
e le alpi cozie con un gemer di graie
quando tacca silvestre chiama in aiuto
un sentiero rischiarato da gai
biancospini sulla via crucis del muto
che sostiene il peso di tutt'un arredo
ma per un chiodo ha il callo alle mani
se c'è un mesentere che dal Sinedrio
va in via larga con il vocìo di un credo
spennato come il codrione del Giano
che confonde il mestruo ahimè con il metro [della metrorragia]
E, scorpione, così suicidarti*
volevi e io che non ho che, dorifora,
scudata la schiena per assumer tue parti
quando a Margie il veneficio è antifona
tu scorpione volevi coi quarti
di vescica della formica duplex
danzando intorno al fuoco cibarti
quando Sandro con piroga lillipu
ziana passa con l'ombelico il Ponto
e col malleolo all'ortica l'Eurasia
condanna... Un cavallo, dove, fai conto
mangia zucchero da palmi di madia
in un eremo che con rami in acconto
sbalza semi come bussole il dado...
* E, scorpione, così veneficiarti
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