Sabato, 20 giugno 2015
Roberto R. Corsi - Cinquantaseicozze - Ed. Italic Pequod 2015
Queste cinquantasei di Corsi sono proprio loro, le cozze, il Mytilus galloprovincialis, il muscolo, il peocio, il mòsciolo. Il bivalve lamellibranco
che si attacca dove può e si adatta sostanzialmente all'ambiente,
campando nell'acqua che trova. Simbolo qui, più che metafora, di una
situazione adattativa di cui l'autore è il principale protagonista e
anche di una stagione, di una zuppa, di un brodo di coltura, di una
riviera. Tutti metaforici.
Questa raccolta
di Corsi è, se vogliamo, un libro sull'habitat e di come un uomo vi si
trovi e ne sia in qualche modo conformato, in parte conquistato, in
parte respinto. Certo non habitat in senso fisico, ecologico, o almeno
non solo. Si tratta forse soprattutto di una collocazione sociale, di
una medietas che
in altri contesti potremmo definire borghese, ma qui serve a poco altro
che a dare un'idea. Una collocazione neanche tanto drammatica, in cui
cioè la vita sembra scorrere con molti dubbi, qualche perplessità,
alcune insoddisfazioni, qualche conflitto esistenziale (e forse
esistenzialista: "il macigno del non vivere") fatto di domande di senso
rispetto a momenti che scivolano via come un sasso lanciato a pelo
d'acqua (il sasso però, ricordiamocelo, finita l'inerzia affonda).
La vita che scorre in questi versi è, come quella di tutti, ordinaria. Proprio perciò diremmo emblematica, come quella dell'Ulrich musiliano (come allude opportunamente Viola Amarelli su suo blog, citando L'uomo senza qualità - v. QUI), ma è una vita in qualche modo collaterale, di una collateralità
di cui Roberto è peraltro consapevole. Una vita che trascorre per lo
più in momenti di relativo edonismo, in cui c'è poco posto per altre
emergenze del vivere - torno
a dire - ordinario, non c'è ad esempio che qualche riferimento al
"resto" della vita come il lavoro o i legami veri e anche l'amore non è
qui connotato singolarmente, come cioè forza affettiva in qualche
maniera "universale", ma come pluralità di trascorsi con troppe
soluzioni di continuità, troppi vuoti in cui il rammarico galleggia. In
questi testi, distesi in una versificazione lunga e a volte lunghissima
(che però basterebbe un qualsiasi enjambement per riportarla ad un
"ordine" novecentesco) con affioramenti di metri "classici" e con
l'ausilio di un linguaggio a volte colto, a volte ironico,
spesso basso/colloquiale legato in un impasto che a tratti mi ricorda
Gadda, con qualche accumulazione in brillanti barocchetti, in questi
testi - dicevo - c'è spesso il mare versiliese,
c'è la spiaggia e la sua fauna, c'è un'aria estiva ripercorsa anche con
ricordi di infanzia, c'è un paesaggio urbano di struscio, c'è il
calcio, c'è il cibo, ci sono insomma tutta una serie di fondali (intesi
sia in senso scenico che marino) su cui scorre la soggettiva (sì, in
senso cinematografico) del soggetto Corsi. Cosa avviene in questi
scenari? Ciò che appunto "accade", secondo l'etimo del termine, l'
"incidente" la cui occasionalità
è poi oggetto e materia di riflessione. E' una realtà visibile e
tangibile quella che cozza (appunto) e rimbalza sul soggetto. Niente di
metafisico né trascendentale e questo, per un verso, è cosa buona e
giusta. Una realtà che Corsi vive con molto spleen e non troppo idéal,
potremmo dire se volessimo accentuare l'idea di questo libro come
pessimista e un'altra idea, abbastanza involuta, del suo autore come
colto flaneur equamente diviso tra Firenze e le spiagge versiliesi. Non è proprio così, ovviamente. Se forse la preoccupazione principale del Corsi poeta è governare il caos piccolo, quello che in fondo è a portata di mano, quei momenti di incoerenza tra il fenomeno e lo spettatore poetante, e se a tratti affiorano una passività di fondo molto ben regolata/temperata da non poca autoironia e da un qualche spritz
di divertente narcisismo, e l'edonismo di cui si diceva un po'
preoccupato ma autocosciente, tuttavia Roberto non si accontenta (e
nemmeno noi dovremmo) di una superficie. La percussione di questo tipo
di realtà crea un rimbombo grave e pensoso che quasi sempre nel finale del testo precipita e deflagra in schegge di dubbio (di una esistenziale irrilevanza,
ad esempio, più volte evocata), per poi
spegnersi. Corsi analizza questa sorda eco, cerca bravamente di
capirne il significato, di capire come stare dentro - adattandovisi
- a questa realtà che certo in gran parte si è costruita, che forse ha
scelto e che non ostante questo è piena di ombre agitate. Cerca insomma
di comprendere (e ha ragione ancora V. Amarelli quando parla di "sostanza essenzialmente tragica" del libro) che cosa non ha funzionato,
tra la vita e lui, lui personalmente, senza la presunzione di parlare a
nome di una generazione di mezzo con problematiche troppo eterogenee e
diverse e men che mai di farne una poesia "civile", anche se non manca
qualche aggancio alla storia politica e sociale del nostro paese. Corsi,
anche per questo, per la assoluta centralità del soggetto, per certi
versi "cantati", per una scrittura abile e icastica spesso musicale, in
fondo è proprio un lirico, per quanto un lirico (e Roberto capirà
l'ironia) sicuramente di tipo irregolare. (g.c.)
II. In questa pattumiera costiera d'alto bordo — dimora obbligata, riparo dalla calura per polli atteggiati, batteria elioterapica, smottamento agostano per chilometri cento del piazzone cittadino: Firenze-[a]-Mare - qui nascono muoiono rondini in gran numero. Ho spesso consegnato alla pazienza del prato le minuscole rese, eiétte dal nido da becchi di Medea, cruda prassi per liberare spazio. Così anno dopo anno i corpi trascorsi in erba esorbitante, poltiglia pervia alle radici, mi confortano nei giorni polifonici di pioggia spinosa; saperli accanto, un tempo malcerti, ora eterni quanto il pianeta, imponenti di silenzio, rimanda alla scarna dolcezza della morte prima che la ornassimo di angosciose affrancature o c'incrostassimo attorno la bava del branco, del vuoto d'orizzonti... Ma sorte santini e autentico male di permanenza straziano il nervo e non c'è logos né mano d'acquaragia che sveli le cornee di chi resta.
V. Guardo mia madre esasperare dolcezze per ogni bimbo in spiaggia — qui il bambino è come la vacca indiana: sostanzialmente orfano gira libero per ogni ombrellone, urla, spreca ettolitri d'acqua potabile, viene imposto ai fedeli che devono venerarlo lasciando ogni lettura, ogni silenzio. La guardo e penso a quanto socialmente le costi la mia inerzia barzotta. I miei hanno messo la freccia per Montedomini, io non sarò padre né ho uno straccio di donna da esibire (peggio: quelle poche hanno fallito il test d'ammissione, di decenza) per esplicitare ottemperanza alla norma, alla monta, a muovere più il lombo della sinapsi. Li ho silenziosamente delusi, non hanno scudi per parare gli assalti di orgoglio genitoriale dei vicini. Avvizzirò solo, nel caos a mulinello d'acqua, senza salti, tra posticipi televisivi abbuffate (se avrò soldi) e qualche risveglio angosciato, in sostanza è deciso e non mi frega granché. Mentre uscivo dall'acqua son rimasto sorpreso da questo vuoto pneumatico: da dove è nato? di cosa s'è pasciuto? come mi distruggerà (se non l'ha già fatto)?
XVII.
ecco la felicità residua: lo spargimento dell'infelicità. (Massimiliano Chiamenti)
Quest'ottobrino torrenziale cagare dei cani sulla spiaggia, magari adiacente all'euforia della corsa sul pelo dell'onda, nell'immobile incanto del tramonto; questo cagare ecumenico, preso con ineducata inerzia dai padroni... I cani lanciati allo sgravio nello spazio sabbioso sono aruspici di giorni in cui ogni scampolo di felicità va con metodo fecondato di bruttezza, tenuto agganciato, che non si smarchi dall'orlo del burrone.
XXIV. Ineluttabilmente solo stupisco a questa sublime lingua di spiaggia in cui finanche le arselle emergono a sfioro, fiduciose, e i granchietti docili sul palmo sanno che li riaccompagnerai nell'onda dopo giusto qualche attimo di gioco- Il mare si ritira lievemente sul far delle tre, il sole spande tepore riflesso e la mente va ai giorni dell'idillio, quando su questi improvvisi sabbiosi ci scannavamo solo nel gioco di racchetta ed eri così donna e compagna, inconsapevole dea perfetta sulla tonalità d'un amore già certo di esplodere. Il vento degli anni non mi scompone, resto esattamente in riva, lì dov'ero — tu indossi la clamide invernale della serietà.
XXXIII. Un tempo c'eri tu nelle sere di sconforto, amore contro tutti, amor tardivo amore sconveniente, amordanno d'immagine - di fatto, unico amore amante dei miei giorni. Un tempo c'eri tu almeno per telefono, quando perfino l'agognato silenzio urtava e impediva il sonno; adesso i miei idilli son solo gastronomici ma non ti rimpiango per niente perché l'esondante dolcezza era la buccia della necessità, capitalistico variare dell'offerta in base alla domanda. Ora sei sfoderata, nuda nelle tue ambizioni, disprezzi me e l'Italia da lontano, ti ergi sulle punte. Mamma Azienda ha fatto il miracolo di renderti a te stessa e scandire, finalmente senza mantelli ipocriti, la mia indegnità e la vera meccanica del tutto.
XLVI. Pure, già in decubito, vedersi piovere addosso scintille: ancora quel moto rovinoso dei sensi e degli affetti — il fascino conosciuto troppo tardi, la naturalezza del magnete amoroso al suo nascere. Succede alla fermata dell'autobus quando una donna — elegante e slanciata, di quelle che suscitano bluastra serenità — mi chiede quale linea prendere per il centro poi se ne sta salda a una spanna da me — tra tutti ha scelto proprio il perdente. Succede, è successo a molte altre prima d'apprendermi. Gestisco male, tamburello il silenzioso ordigno di questa bella stasi, ma Andromaca non se ne cura: mi mollerà solo con una nube arancio di sorriso giunto il "suo" D, diretto in Piazza Pitti. Perché non sia stato anche il mio, perché io abbia preferito languire attendendo il C3 per Piazza Beccaria, perdere la mattina alla scrivania con gente a saltellarmi sulla testa dietro retribuzione, anziché sorseggiare minimo dieci minuti di dignità, davvero non so spiegarlo se non in termini autoptici, carezzando una buccia scevra ormai di qualunque trasparenza.
L. Il desiderio soffuso di una morte scacciaguai, di una morte vagheggiata fontana d'altrui rimpianto, artefice di mani finalmente protese alla carezza del guscio; soprattutto di una morte esalazione, sospiro - ultimo, sì, ma che franca e incontrastata risata dinanzi al piano pensione, all'irrisione di ninfe e linfe svanite, al rincorrere prolunghe di scorno! Benché questa ritmica brama si scontri ogni volta coll'angoscia del boccone per traverso, del grado di febbre, non va mai via del tutto, stafilococco dormiente nel midollo. E presto morirò, così come si svuota il piatto di pepata inventiva. E guarderò marcire con un certo sollievo frattaglie molli infette e pieghe cerebrali inutili, orfane di coraggio. Già vent'anni che il pensiero dello strappo ha preso un volto dolce indefinito di fanciulla romana, mia sposa inconosciuta - coraggiosa Manuelita ti sentenziasti con un cappio, contro tutti, contro beltà e ricchezza, inadatta alla vita.
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