Giulio Marchetti - Apologia del sublime, poesie 2008-2014, Puntoacapo Editrice 2014
Dico subito che la cosa che di primo acchitto sorprende e un po'
inquieta, in questo libro, è la perfetta invarianza dello stile e dei
temi, attraverso gli anni di lavoro poetico che questa raccolta
ripercorre, in tre sillogi diverse gia apparse più una inedita. Niente, o
molto poco, distingue infatti un testo del 2008 da uno di sei anni
dopo, e la cosa, sì, lo ammetto, un po' mi sconcerta, quasi quanto
trovare "I limoni" alla fine di "Satura". Il segno forse è quello di una
fiducia assoluta in un personale idioletto poetico in cui l'autore si
sente confortato, al sicuro, sicuro anche - forse - che il tema stesso,
universale e impellente com'è, imponga di percorrere nessun altro che
quei sentieri con quella voce. Convinzione che certo in parte è
connaturata alla giovane età dell'autore (Marchetti è del 1982).
Parlare d'amore, e riparlarne ancora, non è semplice, sono d'accordo
con la postfatrice Alessandra Paganardi. Il tema è difficile, arcinoto,
scontato, infido e del tutto comune all'esperienza umana, e va
prepotentemente "distanziato", tenuto a bada, se non ci si vuole
affogare dentro. C'è in effetti un certo coraggio in questo canzoniere,
una tenacia nella variazione sul tema (con sconfinamenti
nell'osservazione della natura come cornice dello stesso tema), come un
tentativo di esaurire ciò che nell'esperienza di ciascuno è unico e
inesauribile, nel piacere e, più spesso, nelle pene.
Ma l'amore - qui - è forse pretesto, nel senso letterale del termine, una trama su cui intessere innanzitutto
un lavorìo di parole, una dimostrazione dell'imperio del linguaggio sul
bacino sentimentale e affettivo che quel lavorìo dovrebbe alimentare.
E' questo probabilmente lo strumento principe con cui Marchetti distanzia e
controlla il suo materiale, certo con una riconoscibile competenza, e
lo fa in qualche caso fino a smorzare, almeno apparentemente, quella
certa passione che comunemente si coniuga all'amore. Nel senso
che la primazìa del linguaggio, del "come" dire, è incontrastata, fino a
limitare la sua propria funzione fàtica, l'amore acquista una sua
astrattezza, pare diventare proiezione verso una universalità
trascendente, smaterializzata, un argomento di meditazione sul senso più
generale dell'esistere. E a volte il senso si fa come volutamente
oscuro ("Ledere spasimi avversi equivale a sancire / invariabilmente
l’urgenza regale / della fisicità. Equivale a tendere / l’antico
presagio dell’oltremisura [...]" o anche "Certe sadiche avulse visioni
del meglio / conservandosi al tatto diseguali per indole e forma / quasi
avvertono l’urgenza plenaria dell’estasi pura"). C'è un alto grado di
astrattezza in questa poesia, in bilico tra metafisica dell'amore e
simbolismo, ci sono tanti termini indefiniti, il vuoto, gli istanti, il
tempo delle relazioni è astratto, spesso astratti la collocazione
temporale e fisica degli eventi, il vento, il sogno, la piccola anima.
Eppure da questo punto di vista la poesia di Marchetti è poco "lirica",
assumendo questo termine in senso lato. Il canto infatti talvolta cede
il passo a un tono asseverativo, a qualche dichiarazione aforistica.
Fanno eccezione naturalmente (e forse sono i testi migliori) le poesie
in cui la comunicazione verso l'oggetto dell'amore è diretta, il "tu"
assume una consistenza anche nella sua inevitabile difficoltà a prendere
forma attraverso le immagini della poesia, perché è un "tu" pensiero,
un "tu" luce, come dice Marchetti. Viceversa, quando il lirismo si
riaffaccia, il rischio è quello di certe ingenuità ("quella piccola /
esplosione di ricordi / che ci ostiniamo a chiamare amore" o anche "Ho
smesso di credere ai colori / ma le azzurre profondità dei tuoi occhi /
sono l’unica ragione per cui credo / che esistano due cieli"), nel senso
di espressioni sentimentali note, di accostamenti poetici consueti,
spesso in chiusa del testo, che non sarebbero un problema se fossero
bilanciate da uno scarto poetico, una messa in mora della logica delle
cose, una certa "cattiveria". Forse è per questo che uno dei miei testi
preferiti (quelli che qui ho scelto) è - per fare un esempio - la poesia
"Adesso" (v. sotto), in cui molte di queste cose ci sono, c'è una certa
qual "rabbia" nell'espressione emotiva, nella resa del sentimento buono
o cattivo che sia, c'è una "decisione", la scelta di parole concrete e
"pesanti" in cui anche il poeta può forse rinvenire un ben diverso
sublime. (g.c.)
da Il sogno della vita (2008)
Il dubbio
Cosa ci resta
se attaccare le membra
ci dà la sensazione
di colpire all’esterno?
Dove si resta
quando assalto frontale
vuol dire unicamente
strategia di accerchiamento?
Quale offensiva
dopo il soffio di abbandono
possiamo recare
a chi ci nega il respiro?
E in fondo chi resta
se è poco un riflesso
a cavare dallo specchio
quel poco che siamo?
Sguardi
Trattasi di eclissi parziale
dei corpi. Ordine geloso
del suo assetto. Onore
e rispetto. Ora ti conosco
e tu conosci me.
Questo volgersi di sguardi confusi
può durare per sempre.
Ormai li abbiamo scorti
tra le audaci folate
degli occhi. E lì, per un momento,
ci siamo visti.
da Energia del vuoto (2010)
Adesso
Io ti attacco con il volto scoperto dell’ira.
Io ti attacco perché nulla ho da difendere
se non il mio ego. Io ti attacco dal cielo.
Nonostante un cuore arido e pesante come il mio
non sappia volare. Io ti prendo per mano,
perché ho ferma l’intenzione
di sfilartene a breve il potere. Io ti nego di bere,
concentrato sull’ascolto del mio grido solitario
che annuncia la sete. La mia sete di sangue.
Io ti attacco nel sangue. Nel sangue.
Io ti attacco dal cielo, dalla terra,
dalle oscure verità del sottosuolo.
Io ti attacco perché sono un uomo vecchio
che cerca di essere un uomo nuovo.
Adesso ti vedo. Nemico degli spazi siderali.
Adesso è tutto il tempo che ci resta.
Il giudizio dell’alba
Superati gli abissi e i fondali,
conosciute le tenebre
con tutti i loro nomi
e i loro volti,
è ancora notte.
Qui l’alba è solo
il primo tepore degli occhi,
la cecità dell’abbaglio tipica del sogno,
una bolla di luce da gonfiare
secondo la forma del cuore.
Nessuna primavera saprà tingere la neve
di questo inverno, perché il gelo ha parlato
la sua lingua immortale al cerchio della vita.
È sceso lungo le ossa nel momento preciso
in cui lo hai riconosciuto, quando hai rotto
i sospiri e lo hai chiamato gelo.
Forse c’è stata una parola dopo l’urlo
del silenzio. Ma le labbra
si lasciano separare da un filo di voce
gridandosi addio.
Energia del vuoto
Essere come l’attimo prima
del silenzio, la furia immobile
degli sguardi, aria concreta.
Energia del vuoto.
Io sono l’addio sulle tue labbra
e so che non tremi.
da La notte oscura (2012)
L’attesa
Non è il verbo che comanda l’azione
se la voce del comando è la sola partenza
dell’aria, l’unica scossa percepita.
Avere una direzione non basta,
ogni riferimento in questo opaco
è dubbio, casuale
e sono gli angoli acuminati
ad esigere cautela,
premiando la pazienza dell’ascolto.
Eppure quello che ancora ci attende
è l’attesa. Qui e ora.
Non si ammettono ipotesi terze:
l’amore ci appartiene o ci abita.
La quiete
Certe sentenze non hanno parole.
La notte si apre ad altro buio
e lascia intatta l’ambizione
del respiro.
Le stelle brillano come tante
piccole morti.
Non ho nulla qui intorno
da contrapporre al cielo.
L’assenza è l’unica forma
di quiete che uccide.
La fine
La ciclicità delle parole si inscrive in quella del suono.
Così osservo lo scrupolo del silenzio
per non svegliare la fine.
Questa sete di futuro ci sfila i giorni dal petto.
La ferita esposta al sale dell’attesa.
da Disastri (2014)
Infinito
È inutile sommare gli istanti e il vuoto.
Parlo con l’aria.
Il mio ultimo respiro cammina scalzo.
Ho ancora la forza di pensare
che i nostri corpi nudi
siano stati amore.
L’occhio del cielo mi guarda indifferente,
un lampo attraversa il cuore fermo,
la solitudine splende sugli avanzi del destino.
Non è paura, è solo qualcosa di eterno
che finisce.