Mercoledì, 17 luglio 2013
Fosca Massucco - L'occhio e il mirino - Ed. L'arcolaio 2013
Di primo acchito questa raccolta di Fosca Massucco dà l'impressione di
potervi rinvenire una buona dose di crepuscolarismo, a partire da una
vena gozzaniana che a me pare persistente in molta poesia attuale, per
quanto qui ampiamente modernizzata e con meno ironia. C'è altro
naturalmente, ma vediamo per ora di partire da qui. E cioè dal fatto,
per me indubitabile, che le "piccole cose" abbiano un ruolo centrale in
questa raccolta e nella poetica dell'autrice, piccole cose o eventi o
fenomeni o la ricerca e la cura di "apparizioni" della natura solo in
prima istanza minimali. Che queste "piccole cose", intese in senso
generale, poi possano essere di conforto o di inquietudine o riflessione
(meglio diremmo meditazione, per ragioni che vedremo) è in ragione
della volontà di Fosca di farsene investire e riempire o
viceversa di dominarle intellettualmente. Non uso a caso il termine
"volontà" poichè a me sembra che talvolta ci sia, in questi testi, un
intento a ricercare il momento, l'occasione, la scintilla emotiva o
perfino un satori, un'illuminazione. Nessuna occasione
montaliana, per intenderci, semmai la ricerca di una epifania, di una
agnizione. Con una certa avidità, direi, che però è avidità di vita,
spasmo della poesia, quando si manifesta, all'interno di essa. E questa
ricerca, se non modulata, può portare alla costruzione del
momento illuminante, come ad esempio in questa breve poesia che richiama
il "Campo di grano" di Van Gogh, testo in cui - cosa a cui alludevo
prima - è l'intelletto (la cultura) a dettare il verso e anche, in modo
non secondario, la forma, con quella cesura a contrasto rinvenibile in
tanta poesia giapponese:
Il genio dell’uomo è foggiare
rotonde balle di fieno
immote in una laguna
d’erba disseccata.
La perfezione di dio
è disporre sopra due corvi.
L'occhio e il mirino non sono che due facce della stessa medaglia, anzi
meglio, della stessa identità, secondo una vulgata tipicamente
orientalista, come la freccia e il bersaglio nel noto libretto di Eugene
Herrigel. La poesia da cui il titolo proviene afferma appunto "Così
sono io, l’occhio e il mirino", ma avverte anche che "l’occhio è un
mirino, a fissarlo [l'arcobaleno] non lo scorge". C'è quindi, in questi
due versi, tutta la coscienza proprio di ciò a cui accennavo prima, del
limite cioè della poesia come atto creativo volitivo, della necessità altresì che l'io si defili o si fonda, anneghi, nella scrittura, senza "fissazioni".
La ricerca, in questa silloge, è sul piccolo, la voglia è di
scoprire la meraviglia in un petalo, il senso in un alito di vento.
Tanto spesso ci imbattiamo in questi testi in "oggetti poetici" come un
pruno soave, una vespa, una rosa, una lumaca, il fuoco nel camino, fiori
nel giardino, formiche, corvi, sere agostane, mandorli, bossi,
ginestre, colline. Ma qui è singolare notare come tutte queste cose non
siano più gli antichi simboli della tradizione occidentale, ma oggetti
che devono essere (in sé e quasi ideologicamente) portatori di
un senso ("Deve trovarmi pronta l'armonia / delle cose - / un gatto un
falò, un inverno / o pressappoco - / prima che cambi idea"), veicoli di
una dimensione ulteriore a cui con l'occhio e il mirino si possa
accedere. Perciò l'autrice, in buona parte del libro, sembra tesa alla
creazione di un microcosmo il più possibile felice (o, forse meglio,
moderatamente infelice) e forse alieno all'esterno, in cui il sentimento
predominante sembra essere la malinconia o una "serena" inquietudine.
E' in questo hortus conclusus che si esplica gran parte del lavoro
poetico di questo libro, che Fosca svolge e dipana senza
"improvvisazioni nella sua scrittura, ma con misura e armonia" (Dante
Maffia, nella prefazione), ma anche con notevole maestria linguistica e
prosodica la sua poesia "solitaria". Eppure, anche se così può essere,
bisogna infine che il poeta ceda, si faccia trapassare dalle sue
esperienze, che l'io, come dicevo prima, "fonda".
Per fortuna (non è, secondo Aristotele, il tragico l'elemento più
interessante in arte?) il microcosmo si incrina: c'è qualcuno, qualcosa
là fuori, succedono drammi piccoli o grandi di cui le cose sono
spettatori impotenti. Ed ecco, nei testi migliori, quelli che
preferisco, alcuni dei quali di notevole intensità come ad esempio Sono stanca di essere stanca oppure E quando pensavo di averlo trovato
(v. più avanti), ecco che l'autrice diventa meno spettatrice
meditabonda, meno "poetessa del particolare" (Luigi Papandrea, nella
postfazione) e si fa più soggetto attore di una vicenda che può
appartenere a tutti coloro che la leggono. (g.c.)
1 di 4 – Mattino
Il vento scrolla le vespe dall’alba, scuote i pertugi fangosi della requie notturna – ed esse vacillano ruggenti tra i viluppi di lavanda.
Nelle ore torna bonaccia e governa – la vespa tenace – le ultime raffiche, l’aria ferma accoglie un'ansia di primavera.
Oggi sono verticale. Gravida per induzione come traliccio d’alta tensione – m’attraversa la vita senza scavo. Ed esisto – ponte ad immobili campate collegando frange di universo in corsa parallela ignare d’altra memoria.
Io sola so e non mi servirà a nulla.
Come una vecchia cascina riattata così mi riconosco – piena di falsi piani e storie bislacche. Io, una casa della bassa, qualsiasi – in nulla appariscente.
Se non spurgo umido come fan per bene i muri crudi, anche in me risalgono salnitro e muffe.
Se non rimango mobile, impassibile ai tarli ma cedevole alla terra di fondazione, mi aprirò dal profondo.
Quando fui solo un pensiero c’eran di mezzo lenzuola al vento, si delimitavano così muri storti e famiglie. Il mondo sta dentro queste cose, il resto è il tempo che si perde.
Ci sono istanti di marzo che inducono all’attesa e mi vedono scrivere, china, inutilmente – il vento falso, qualche gemma impertinente un fiore di serra acquistato l’altro dì.
Seduta, guardo fuori dai vetri il giardino immobile che chiama – un passo, uno solo basterebbe.
Di nuovo mi imbroglierà – chi non dimentica un impegno per il primo cinguettio dell’anno, chi sfugge al fiato mozzo guardando il dito che indica la rondine?
Io mi incanto anche nel niente, non mi serve un motivo per volare – poi atterro veloce. Ci sono panni e pannolini, minestre e cure che mi tengono occupata, non è facile il mestiere del poeta al giorno d’oggi.
Sono stanca di essere stanca. Cammino veloce attraverso i binari schivando la voce che piove dall’alto. Se sembro rapida nessuno intende la fatica, se guardo interessata nascondo debolezza.
“Treno in partenza dal binario 10” Cosa credi, che non lo sappia? E’ questa vita che mi zavorra, lasciandomi una smorfia di prossima nausea. Non partire, eccomi. Se salgo al volo sobbalzerà l’entusiasmo sul fondo? – ammesso che ce ne sia ancora.
Ammesso ma non concesso come il posto a sedere accanto ad un dormiente russatore – che si sogna i suoi sogni, anche se i miei sarebbero più belli.
E quando pensavo di averlo trovato l’equilibrio immobile delle sere agostane quando mi convincevo a credere – e credevo che i mandorli, l’aria e le briciole che tutto nella sua perfezione fosse fermo, quando anche il dolore degli amici – sepolti spietati – aveva trovato requie, neppure il tempo di guardarmi da fuori e sorridere senza stavolta strozzare la gioia – mi trovo a piangere appoggiata al carrello freddo di novembre, tra gli scaffali dei formaggi e del cibo per cani.
Perdonare un addio è facile e si fa grande impressione. Così perdono la tua assenza, il mio strazio ed il niente successivo. L’addio definitivo rende liberi senza tormento – manco un ricordo duole se non voglio, i fasci di tempo allacciati a covone nella memoria ristanno muti.
Ma se sopraggiunge il vento di un evento inatteso, insperato – o semplicemente ignoto e smuove i pensieri a cui volto le spalle, ecco volare ricordi. Perché ogni sera ha il suo ritorno, il suo chiamare e le ansie disattese – a nulla rispondi, da vent’anni – e i ricordi sono l’unico ritorno.
“Un matrimonio per essere buono non necessita di felicità, ma di stabilità” “Noi abbiamo entrambi”
Ho ingoiato il nostro amore. Sottile lisca di pesce si è fermato scomodo in gola non più voce – non ancora coraggio.
“Quale inopportuna disattenzione ti permise ingresso? Dove avevo distratto i pensieri?”
(mentre il tempo ristava crocchiando come legna estiva ad asciugare – mentre m’offrivo, terrazza in rigoglio alle carte, ai pensieri, ai limoni della cedevole sera agostana)
“Ingollerò molliche di stabilità quotidiana per possederti tenacemente dentro o – almeno – fermo”
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