Giovedì, 21 marzo 2013
Francesca Del Moro - Gabbiani ipotetici - Cicorivolta Edizioni, 2013
Il gabbiano che attraversa trasvolando con qualche incertezza, qualche
dubbio e qualche ferita, ma molta determinazione questo libro di Francesca Del Moro
è - secondo l'avvertenza di Giorgio Gaber in esergo - l'alter ego, o
meglio ancora il deuteragonista de "l'uomo inserito che attraversa
ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana".
Non sono però separati, anzi "ci si sente come in due". Ovvero, come
titola un testo, "squilibrata e sana", qui e altrove, dentro e "fuori"la
vita.
E' questa bipolarità tra il rasoterra e il volo, io credo, ad essere
creativa, questa coscienza dolorosa e sopportata, nel vero senso del
termine, portata sulle spalle. Se tu ne prendi atto e sei capace di
dargli un nome, di scriverlo, allora il dolore non è "sordo", anzi
acquista una voce. Una voce potente.
Qui la voce (poetica) è arrabbiata, anzi incazzata. Lo dico pur sapendo
che a Francesca non piace, perchè sa di clichè, come scrive in suo
testo. Ma so anche, come scriveva Bukowski da qualche parte (cito a
braccio) che la gente è matta, e se non è matta è arrabbiata, e se non è
né matta né arrabbiata (vuol dire che) è semplicemente stupida. Cosa,
quest'ultima, che credo sia la vera discriminante, poiché esclude
implicitamente l'arte.
Se si parte da questo presupposto (o discriminante) perfino parlare di
poesia femminile ha poco senso, e questo mi solleva poiché sono convinto
che non sia un genere, esattamente come (appunto) quella "arrabbiata" o
quella "giovane". Direi che tutto dipende dai filtri (anche psichici, e
dall'intelligenza, anche ma non basta) attraverso cui l'esperienza
(magari brutta) subisce la sua metamorfosi in significato, come un
kafkiano insetto mostruoso che torna ad essere Gregorio. Diciamo, per
spiegarla diversamente, che qui, come sosterrebbero altri, c'è una forte
correlazione tra l'io analitico, quello
dolorante/corporeo/affettivo/sentimentale e quello etico, o narrante.
Insomma, per un poeta non basta prendere atto di un amore
finito, di un disagio esistenziale o femminile, della morte di un amico
caro, delle ingiustizie, della sconfitta politica e magari farsene una
ragione. Semmai, al contrario, gli interessa fare dell'esperienza
qualcosa di irragionevole. Come forse farebbe un gabbiano.
Tutto naturalmente è molto più "concreto", nei testi, di quanto possa
apparire da questo discorso. La sordità del dolore di cui dicevamo viene
contrastata dal lavoro di scrittura. Qui in effetti la scrittura, anche
con i suoi eventuali "inestetismi", è importante perchè sonora, fàtica.
Diretta, "primaria", spesso tutta d'un fiato ("frenetica" dice Adriana
Soldini nella prefazione), a volte scatologica, apparentemente
spontanea, è fondamentalmente priva di trabocchetti metaforici, di roba
da decifrare. Dice quel che deve dire, anche in maniera percussiva, e
tuttavia restituisce, nei testi migliori, una leggerezza antieroica, una
donna che non vuole essere emblematica, semmai vorrebbe essere felice.
La narrazione è comportamento vissuto, e quindi etica. Il linguaggio è
selezionato su un registro volutamente "naturale", e quindi scelta
ideologica, di non separazione tra il dire e il poetare (e infatti
Francesca, in un testo intitolato "Soancheioscriverecazzateermetiche",
ironizza su certe maniere: "da estenuati ossari / promanano lacerti
d'urlo...")
Certo "Gabbiani ipotetici" ha le sue discontinuità, i suoi momenti alti
e quelli bassi, come naturale. Un esempio per tutti: non è facile - non
è mai facile - fare una poesia politica o "civile" che sia
anche "bella", che sia qualcosa di più di una invettiva. Il problema, a
mio avviso, sorge quando in essa, secondo una classica distinzione, i
valori secondari (il principio di realtà, la cultura, il sociale, il
politico) prendono il sopravvento su quelli primari (la libido, i sensi,
il "cuore", l'umano, il primordiale). Il difficile sta lì, in fondo, in
questo tipo di controllo artistico di sé come autore. Eppure in una
poesia come Dimenticare Genova (v. qui sotto), Francesca ci
riesce. E lo fa semplicemente cambiando direzione, precisamente
all'ultima strofa. Il passaggio da un ricordo plurale che svanisce
(avevamo paura...chi se lo ricorda ormai...) a una singola marcatura che
quel ricordo rinfocola avviene bruscamente con la messa a fuoco di un
primo piano, con una singola metafora (il cuore) vecchia come il mondo
ma efficace. Con una specie di passaggio cine tra un campo lungo e il
dettaglio le cose, l'umano, il politico, si conciliano.
Ma a parte queste considerazioni forse marginali, questo libro si
aggiunge alle cose più interessanti che ho letto ultimamente, quasi
tutte scritte da donne. E se questo smentisce ciò che ho appena detto
sul "genere", pazienza.
Squilibrata e sana
Impazzisci e muori o diventa equilibrato e malsano. (Antonin Artaud)
squilibrata e sana senza niente di tutto quello che avete deciso essere il successo la soddisfazione il rispetto di se stessi la realizzazione senza quello che avete deciso essere necessario per vivere o per meglio dire necessario per non suicidarsi senza la spasmodica ricerca di un senso di una compiutezza senza essermi mai misurata in figli soldi amore amici beni immobili rispettabilità fama ma nemmeno eccessi droghe alcol sesso rabbia proteste senza essermi mai misurata senza aver mai valutato me stessa sono quello che mi viene a dispetto del contesto senza amore non si vive senza gli altri non si vive senza il rispetto di se stessi non si vive invece vivo vedo le tue mani un po’ invecchiate e morbide posarsi sulle mie le tue mani piene di saggezza scorgo baffi bianchi nell’ombra intuisco il dondolio di una sedia ho il presentimento del sole che nascondi dietro la finestra ma non appenderò le mie grida al tuo attaccapanni non mi avvolgerò al calduccio delle tue parole non mi farò dettare i minuti dalle tue pasticche non accetterò nessuna diagnosi non sarò il tuo caso non sarò la tua battaglia non sarò il mio cammino non sarò la mia meta sarò quello che mi viene
Sera
La stanza è squallida e spoglia coi vestiti ammonticchiati negli angoli e una lampadina che pende dal soffitto.
Il bianco delle pareti nude mi soffoca come sempre però il tè marocchino è buonissimo e mi piacciono il suo profumo e l’accento con cui parla italiano.
Per gratitudine o noncuranza gli lascio affondare la lingua e le dita subito prima di andarmene.
Poi, mentre cammino verso casa ed è buio e in giro non c’è più nessuno, penso a quanto potrebbero far male due colpi secchi di rasoio ai polsi e che in fondo sembrerebbe bello il mio corpo vestito di sangue.
Appena ho un momento libero
Appena ho un momento libero quando mio figlio è a scuola e la casa è pulita e ho finito di stirare appena trovo il tempo e la traduzione è finita e sono uscita dal lavoro se l’autobus è puntuale se il treno stranamente pure appena ho un attimo e fuori c’è bel tempo e ho pagato le bollette e sono stata in banca e il dottore mi ha visitata appena ho un momento libero finalmente una buona volta quasi quasi io mi uccido.
Aspettando Caterina
dal computer alla finestra al bagno al computer al corridoio alla finestra al computer alla porta di ingresso io con gli occhi enormi come cuori rossi come cuori pulsanti sangue come cuori in senso anatomico s’intende non in senso sentimentale metaforico nel senso dell’organo asimmetrico gonfio rosso con le vene violacee io col corpo tutto un pianto io tutta lacrime e lacrime e troppo sangue nel momento sbagliato il ventre come una pompa io che mi sciolgo nel sangue in basso e in alto gli occhi come sangue sono rossi e grossi come cuori dal computer alla finestra al bagno al corridoio al computer alla porta di ingresso un percorso difficile io tutta così precariamente tenuta insieme mi sciolgo nelle lacrime e nel sangue senza capire bene come funzionano le une e l’altro da dove vengono da dove le une e da dove l’altro le lacrime in alto il sangue in basso occhi e ventre ugualmente colanti gocciolanti trasudanti pesanti doloranti ingombranti solo occhi e ventre attivi percepiti il resto difficile da tenere insieme dal computer alla finestra al computer al bagno così tanto sangue non l’ho mai visto e al momento sbagliato così tante lacrime non le ho mai sentite sul viso sul collo sul petto sulle mani così enormi i miei occhi non sono mai stati grossi e rosso sangue come cuori battono ormai pulsano come cuori in senso anatomico s’intende non in senso sentimentale metaforico in senso anatomico tanto mi costa tenere insieme il mio corpo in senso anatomico dal computer alla porta d’ingresso alla finestra al bagno alla macchinetta del caffè sarebbe bello bere una tazza di caffè ora ma infilare la cialda è troppo difficile adesso con le mani che si sciolgono in lacrime colano sangue non afferrano al massimo picchiettano i tasti del computer devo lavorare comunque ho da fare comunque me lo farai tu il caffè quando vieni ancora un’ora io mi tengo insieme ti aspetto
Preghiera
Perché non risponderti ora Dio non la voglio la tua vita ci sputo sul tuo regalo.
Non lo adorerò te lo do indietro mi hai creata per desiderare all’infinito una carezza e ricevere in cambio degli sputi mi hai creata per volere un briciolo d’amore e ricevere in cambio del disprezzo.
Non sono degna, non sono degna di uno sguardo, non sono idonea per la riproduzione, il sesso, l’amore e allora tieni, tieni, tieni le mie vene secche, la geometria di sangue sulla pelle e inebriati della mia morte volontaria, che bravo sei, mi hai cancellata, condannandomi a vivere per sempre morta, ma io t’inganno e mi ribello e mi taglio le vene e la tua vita mi fa schifo e te la rendo e quell’amore che mi neghi io non lo voglio sono morta, ecco, io l’ho deciso, tu non hai vinto.
Al mio ex marito e alla sua nuova moglie senza rancore
Piantarvi i denti nella carne, succhiarvi la pelle finché non si colora, lavarmi il viso con il vostro sangue, e poi gettarmi sopra la testa le schegge delle vostre ossa come una pioggia di coriandoli.
La vostra cattiveria la vostra irrisione la vostra insensibilità ora le faccio mie.
Ora faccio l’etica a brandelli, ora vedo solo la mia strada. Ora mi adeguo alla legge della natura.
Sopravvivo, sono la più adatta, mi metto in fondo alla catena alimentare ideata da quel Dio geniale che ora sommerge con una risata universale i goffi tentativi umani di farlo giusto e buono e di inventare una morale.
Ora guardo intorno a me i risibili pezzi di carne di voi che avete fatto a pezzi la mia vita, mi riempio gli occhi dei vostri occhi sbarrati.
Mi consegno mia sponte calma e collaborativa passo notti e giorni a leggere e a non parlare e a sorridere se mi capita di immaginare Dio che mi dà una pacca sulla spalla mentre si compiace di guardare la poltiglia che vi ho fatto diventare.
Dimenticare Genova
A un certo punto avevamo paura perfino dell’aria, del cielo plumbeo, degli elicotteri-avvoltoi che ci sorvolavano. Stavamo stretti per proteggerci, coi nostri sogni in tasca insieme ai sassi e ai pugni chiusi, ci infrangevamo come onde infilzate da fili di vento.
Chi se lo ricorda, ormai, per cosa marciavamo, la giustizia globale, come potevamo chiedere tanto se nemmeno su uno sputo di terra c’è giustizia.
“Mi hanno schiacciato la faccia con gli stivali” racconta lei tra visi amici, dopo, “sentivo il sangue in bocca, le costole rotte, ho perso due denti, ma”, dice e le si spezza la voce, “non faceva male il corpo, era il cuore, era il cuore a fare male.”
A Brian
Nella notte specchiata sui tuoi capelli nel mare feroce dei tuoi occhi nella tua bocca che provoca e sfida nei tuoi piccoli denti vergognosi nel bianco solco del tuo petto io consumo la mente io rinchiudo il mio corpo io scialacquo il mio tempo io accarezzo il progetto di diventare unica per te morendo.
È che nel tuo cuore
È che nel tuo cuore offerto come una scodella vuota io rovescerò insieme a tutto il mio amore questa tristezza di bambina non voluta.
Ci cadrà, insieme alla passione, una supplichevole forma di bisogno come quando, rompendo le uova, l’albume cade per sbaglio insieme al tuorlo.
In un immaginario contatore di significato
In un immaginario contatore di significato il numero di figli sarebbe aumentato o, in mancanza, il numero di libri. Invece tutto si è fermato e io non sono nemmeno nelle braccia o nel pensiero di qualcuno.
Marina
Con l’occhio a qualche centimetro dalla sabbia spio il tremore del vento sulle cose. Una borsa, una busta, gli ombrelloni in lontananza. Dietro i miei piedi il mare che russa. Ci vorrebbero due mani incantate dall’inarcarsi delle mie spalle per riempirmi il buco in gola per strapparmi la nausea dalla bocca per fermare la fuga dei pensieri verso quello che non sono. Io non sono parte di nessuno di questi quadretti familiari da spiaggia. Io non ho l’età per stare in quel gruppo di ragazzi che ancora sognano in cerchio davanti al tramonto. Io non ho la dignità della figura di spalle solitaria che cammina nell’acqua fino a sparire insieme al sole. Io sono un nodo di sabbia sospeso che un refolo subito scioglie.
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