A corollario della presentazione a Firenze il 16 ottobre scorso di "Trattato poetico" di Czesław Miłosz (Ed. Adelphi), di cui ho dato notizia QUI,
segnalo la pubblicazione su "L'ospite ingrato", rivista on line del
Centro Studi Franco Fortini, del resoconto, corredato da alcuni testi
del poeta, degli interessanti interventi dei relatori Alfonso
Berardinelli, Giovanna Tomassucci e Valeria Rossella, traduttrice
dell'opera. Ringrazio Giovanna Tomassucci della segnalazione.
Alfonso Berardinelli: "È certo (e non sono io a decretarlo) che il Trattato poetico
di Miłosz è uno dei poemi più potenti e labirintici del Novecento,
un’opera audace e insolita che non sa ancora dire se ha segnato un’epoca
della poesia europea o ne ha aperta una nuova. Probabilmente tutte e
due le cose: il bilancio del Novecento che viene compiuto nelle sue
pagine, una tappa dopo l’altra, una dimensione contro un’altra, ha
spinto l’autore alla costruzione di un modello formale che poteva avere,
e forse non ha ancora avuto, un’influenza sulla poesia successiva, non
solo polacca. Per fare un solo esempio, citerei, restando nel cuore
dell’Europa, almeno i due ‘poemi saggistici’ di Hans Magnus
Enzensberger, più giovane di Miłosz di quasi vent’anni e che esordì
esattamente nel 1957, l’anno di pubblicazione del Trattato poetico. Sia con Mausoleum che con La fine del Titanic,
entrambi degli anni Settanta, Enzensberger uscì dai limiti della
composizione breve e sperimentò il poema storico, fra narrazione e
interpretazione. Contro una poetica che era sembrata dominante, ma che
non esauriva certo le potenzialità dello stile moderno, Miłosz abolisce i
confini tematici e linguistici della poesia; (...)"
Giovanna Tomassucci: "Czesław Miłosz ha scritto il suo Trattato poetico
dall’esilio, tra il dicembre ’55 e la primavera ’56. Nella difficile
condizione di poeta senza pubblico, transfuga in una Francia ostile,
negli anni precedenti si era soprattutto dedicato alla prosa con il
saggio La mente prigioniera (1953), ritratto di vecchi amici convertiti allo Stalinismo, e il romanzo autobiografico La valle dell’Issa (1955). In quello stesso periodo si accingeva a scrivere uno dei suoi più bei libri, Europa familiare (1959, tradotto in italiano da Adelphi con il titolo La mia Europa),
atto di amore verso la sua terra natale, la Lituania, crogiuolo di
lingue e culture, che per l’Occidente continuava (ma oggi è forse
diverso?) a essere una ‘regione nebulosa’ su cui si ‘danno poche notizie
e se mai errate’.
Dopo la sua richiesta di asilo politico del 1951, molti compagni di un
tempo lo avevano duramente bollato di tradimento. In patria il suo nome
sarebbe rimasto all’indice quasi fino al conferimento del Nobel (1980).
Per raggiungere i propri connazionali, a parte certe equilibristiche
apparizioni (La valle dell’Issa verrà immediatamente confiscata
dalle autorità ancor prima di uscire in libreria), potrà solo contare
sulle edizioni dell’emigrazione di Parigi e Londra e più tardi sulle
quelle samizdat’. (...)"
Valeria Rossella: "Quando noi leggiamo, dico nella nostra stessa
lingua, compiamo sempre un’opera di traduzione, leggere non è mai un
atto puro. La traduzione da un’altra lingua non è che l’aspetto
macroscopico di questa contaminazione, pensiamo soltanto a come esista
un unico originale, e tante traduzioni, in tempi e in lingue diverse.
La traduzione, e soprattutto quella poetica, è dunque un sosia, ma non una copia: un gemello, che vive di vita propria.
Quando si affronta un testo scritto in una lingua molto lontana dalla
propria, aumenta esponenzialmente la responsabilità del traduttore che
diviene, per il lettore, l’unica voce del poeta.
In questo caso si tratta di affrontare con la splendida, ma anche
ingombrante armatura della sintassi italiana, la duttile e sgusciante
sinuosità di una lingua slava.
Miłosz qui usa l’endecasillabo, tranne che in alcuni frammenti, io ho
pensato di adottare una misura elastica, che si sviluppa modulandosi dal
doppio settenario all’endecasillabo. (...)"
(potete leggere il resto del dibattito su "L'ospite ingrato" - LINK)