Domenica, 10 giugno 2012
Daniele Santoro - Sulla strada per Leobschütz - La vita felice 2012
Frammenti di Shoah che Daniele Santoro mette in versi,
a partire da fatti, ricordi, documenti, come si evince da note e
bibliografia. L'idea di fondo del libro è dunque questa, un libro di
programma quindi, senza voler togliere nulla alla forte spinta etica di
Daniele o forse alla necessità di ricostituire una memoria o una
identità.
L'affermazione di Adorno, secondo cui "scrivere
una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa
consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie"
è arcinota. Sappiamo peraltro che in seguito Adorno ci ripensò su,
precisando che semmai era meglio affermare che "non ci si può più
immaginare un’arte serena" e non credo che a tutti sia perfettamente
chiaro il suo pieno significato. Sappiamo che più volte detta
affermazione è stata comunque confutata dalla letteratura stessa.
Sappiamo anche che la sopraffazione del dolore, il tentativo di dire
l'indicibile, narrare l'inimmaginabile si è tradotta in difficoltà del
dire (e forse di gettare uno sguardo nell'abisso), in un linguaggio
spezzato e oscuro come quello che Primo Levi (pur amandolo)
"rimproverava" a Paul Celan, quando diceva di "pensare all'oscurità della [sua] poetica come ad un pre-uccidersi, a un non- voler- essere, ad una fuga dal mondo", o ancora a "un riflesso dell'oscurità del destino suo e della sua generazione".
Dunque, si può parlare ancora di quella immane tragedia? Santoro,
classe 1972, ha affrontato la questione. Si chiede il prefatore,
Giuseppe Conte: ci si può documentare per scrivere versi? Lui si
risponde di sì (e parla di sfida). Io invece non lo so, o almeno credo
che non basti, altrimenti potremmo aspettarci da uno dei tanti liceali
che ogni anno salgono sui treni della Memoria che li portano a visitare
Auschwitz o Mauthausen, a parte una auspicabile nuova consapevolezza,
qualcosa di più di un buon tema. Ovvero, c'è un nesso tra esperienza
cognitiva e fatto artistico? Il filtro può essere meramente culturale?
Fino a che punto la cognizione del dolore può essere mutuata prima di
poterne trarre a buon titolo un oggetto poetico? Credo che il punto sia
questo, o almeno uno dei punti. Cioè l'empatia dell'autore, il fare sua
la tragedia, anzi di più, cercare di capire (e far capire al lettore)
le ragioni di una personale scelta, da quale profondità essa provenga.
Per capire cosa intendo forse potremmo rileggere cosa scrissi brevemente
a proposito di "Lettera da Praga" di Francesco Marotta (v. QUI)
E' proprio questa "lontananza", se così si può dire, che permette a
Santoro di affrontare la Storia in maniera postmoderna: il linguaggio
viene chiarificato, reso colloquiale, a tratti "modernizzato", l'indicibile viene "detto" (e gli eventi ricomposti)
per frammenti, come una registrazione, l'autore rinuncia a una epica
del dolore, tiene a bada - credo volutamente - sia l'elegia sia
l'emotività lirica (tranne che in alcuni testi che preferisco, oltre alla secca ma dantesca La distribuzione del pane) ovvero
quei tratti che più consentono quella carica affettiva e empatica a cui
alludevo, quegli elementi di trasfigurazione del dato di realtà che
coinvolgono e contaminano sia autore che lettore, ne mettono in moto la
capacità di percepire quello che non sanno, nemmeno se lo hanno
studiato. Eppure è proprio questa "freddezza" che alla fine di questo
libro che si legge velocemente potrà lasciare il gelo evocativo di una
tragedia su cui non sarà mai possibile dire l'ultima parola, scrivere
l'ultima poesia.
ORDINI IMPARTITI ALL' INTERNATO KALMIN FURMAN
Regola prima. Me lo porti al muro ovviamenre già nudo. La divisa la sistemi da parte col berretto (servirà per i prossimi arrivati).
Regola due. Lo tieni per l'orecchio se per il braccio é inutile, se fa resistenza insomma che non s’agiti, se sbaglio mira poco mi importa, non faccio differenza.
LA DISTRIBUZIONE DEL PANE
divorato il suo pane allora il figlio guardò il papà in cagnesco (che se lo smollicava ancora piano piano il suo) e gli si avventò contro glielo strappò di mano e se lo ficcò in bocca masticò feroce feroce come l'animale, gli occhi scarni e spalancati fissi su quel moribondo che giaceva a terra.
finché non arrivò di fretta il capoblocco e lo aiutò ad alzarsi, mollò uno scapaccione al giovinetto, poi tutti e due se li portò a braccetto là dove si può bene immaginare...
al campo non li ho visti più tornare.
IL SOLE DI MAUTHAUSEN
Sole che spacchi la pietraia e bruci sulla fronte e accechi il prigioniero nelle cave di granito, soltanto per un attimo Pietà del tuo grande splendore: oscurati, fa' notte fonda, spegniti!
non una nuvola ti chiude, uno spiraglio d'ombra miracolosa, un acquazzone - che abbiamo l'ansia in bocca degli oceani e dentro gli occhi il mare i fiumi i laghi delle nostre terre o sole maledetto maledetto sole e maledetto il giorno il cielo senza nuvole, l'estate e maledetta l'afa che feroce
strangola il prigioniero nella cava
BLOCCO DEI MATTI
chiusi tra quattro mura di baracca saltavano sui letti tutto il giorno andavano su e giù gridando in lingue incomprensibili, gli spensierati.
stavano per i fatti loro, non davano fastidio salvo le volte in cui noi si doveva entrare portarli via di lì, rassicurarli che avrebbero ripreso subito a volare
LE SELEZIONI
I
fatto l'appello, il medico del campo seleziona, lo scriba prende nota sul registro
sanno oramai il destino che li aspetta infatti a malincuore lasciano la fila tremano messi in disparte guardano noi che facciamo un passo avanti a chiudere la riga
II
in piedi da quattr'ore, sull'attenti (fummo svegliati all'alba) e adesso viene il medico del campo, riposato il viso, la divisa linda che umilia i nostri stracci. visita ognuno, gli basta un colpo d'occhio, non va per il sottile - via tifo esantematico, foruncolosi scabbia, malaria e febbre petecchiale sfoltisce la baracca come nessun altro destina a morte anche i convalescenti in numero di 700, non fa distinzione purché facciano «in fretta, in fretta si tolgano di mezzo!»
III
«tremo perché ho paura» - rispose l'internato e il lagerfuhrer lo invitò a calmarsi se non voleva andare dritto al crematorio (che intanto gli additava), il poveruomo fraintese però il gesto, uscì dal rango. l'interprete intervenne, disse «cosa fai? torna al tuo posto!» e allora il comandante «lascia invece che venga, è lui che si fa avanti vuol dire che era questo il suo destino!»
IL PAESAGGIO
certo non basta la Crudeltà degli uomini aggiungi l'ignominia del paesaggio: la calura che spacca pure i sassi delle lacrime, la neve le nere nuvolaglie, il puzzo tutto il giorno dei cadaveri un fiore te lo stroncano al suo nascere e un albero non ci sorprende per bellezza il volo di un uccello altissimo sugli orizzonti
LA LIBERTÀ DELL'UOMO
straniero amico compagno di questa sciagura senza senso è qui che si separano le nostre strade, addio. Tu nella luce scegli, in luminoso viaggio e io qui nel buio, ancora qui nel buio che brancolo per martoriate insanguinate terre appiccicato a cosa poi nemmeno io lo so se è istinto di sopravvivenza o solo per paura della morte o per vigliaccheria di non sapere opporre estrema libertà al carnefice, la libertà dell'uomo ch'è sì cara, amico, la libertà dell'uomo ch'è sì cara.
di Te che non conosco nome, nazionalità so quanto basta so la parola dello sguardo millenaria antica nella sofferenza e so la breve intensa gioia, l'incanto che si prova se a rapirci, se a liberarci dall'angoscia è giusto una misura di stupore, una bellezza che dia senso, amico, come quella sera che puntavamo al cielo gli occhi e ci sorprese il pieno delle stelle immenso il firmamento
Altri testi di Daniele Santoro QUI
|
Tracciato: Giu 22, 01:20
Tracciato: Giu 22, 01:20
Tracciato: Giu 22, 06:07